POLITICA ITALIANA, ILLUSIONE DI CREDIBILITA’
In un periodo che non ha precedenti nella storia del nostro Paese, le istituzioni fanno caso a sé, nel più che evidente disinteresse della volontà di un’intera nazione, ed espressione di un meccanismo ormai inceppato.
di Roberto Roggero
Non si è mai parlato tanto di credibilità e politica come oggi, complice la situazione di pandemia, che ha gettato il Paese nel caos, nella totale assenza di punti di riferimento, e soprattutto di buon senso. Complice anche una certa stampa ufficiale, il cosiddetto “mainstream”, dal quale proviene disinformazione più che informazione vera e propria.
Analizzando i criteri utilizzati dai media che selezionano la notizia, non sorprende che il significato del termine “credibilita” sia più che altro sinonimo di “crisi”, soprattutto se si considera che non pochi aggiungono il termine “irreversibile”.
La credibilità dovrebbe essere il fondamento della vita politica di un Paese, di un ordinamento che si definisce a gran voce “democratico”, principio tanto abusato quanto latitante, in un’Italia malata, affetta da una patologia alla quale sembra sempre più difficile trovare rimedio. Tanto più che la perdita di credibilità ha un prezzo da pagare per l’intera collettività.
Di esempi ce ne sono anche troppi, purtroppo, con politici che sono riusciti, inspiegabilmente (ma nemmeno tanto!) a passare attraverso gravi crisi di credibilità con scandali, magre figure, casi lampanti di malafede, incompetenza, superati senza conseguenze, e soprattutto facendosi beffa di quell’assunto, ormai senza significato, che campeggia nelle aule dei tribunali: “La Legge è uguale per tutti”, da sostituire con “La Legge dovrebbe essere uguale per tutti”.
Il problema si trasferisce quindi su un altro piano: assuefazione, distrazione dell’opinione pubblica, somministrazione di continue giustificazioni, e molto altro; o forse semplicemente l’emergere, e l’affermarsi, di un nuovo concetto politico: la credibilità non è più così necessaria come un tempo.
Per tentare di arrivare a una risposta soddisfacente, bisogna quindi chiedersi che cosa è la credibilità. Secondo il dizionario della lingua italiana: “la possibilità che qualcuno venga creduto”. Ed è questo il nocciolo della questione, perché qualcuno è ritenuto credibile se agisce secondo onestà, rettitudine, fede all’impegno, trasparenza, e altre belle parole, che rimangono sulla carta.
Il ben noto Aristotele, nella “Retorica”, sostiene che normalmente si è portati a credere per istinto a una persona onesta, specialmente nelle occasioni in cui è richiesta opinabilità più che certezza. Il filosofo, pur ricco di buone intenzioni, probabilmente sapeva per primo che tale affermazione non può essere ritenuta universalmente giusta, semmai lo è solo in parte. La credibilità non è una qualità soggettiva morale di una persona, ma qualcosa che si attribuisce in virtù delle azioni, e viene riconosciuta dagli altri. Quindi non è certo innata, come il concetto di rispetto, che deve essere guadagnato, non certo dovuto. In ogni caso non prescinde dalle qualità personali, che pur ne sono fondamento, ma nasce e si afferma in seguito a una relazione, a un rapporto. Inoltre, non è possibile, per definizione, essere credibili in senso generale, ma sempre per qualcuno, e mai per tutti. Di conseguenza, credibilità e fiducia possono essere considerate due aspetti di una stessa relazione sociale.
Colui che si propone come “individuo credibile”, dovrebbe chiedersi: “Che cosa devo fare per essere credibile?”, mentre dall’altra parte, dovrebbe essere formulata la domanda: “Posso credergli?”. Partendo quindi dal piano personale, l’individuo che esercita la politica nella Res Publica, deve avere il requisito fondamentale della credibilità verso sé stesso, ovvero: “Se mi vedessi dall’esterno, mi crederei?”
Stando così le cose, si può creare un baratro insanabile fra l’immagine di sé che un individuo cerca di costruire attraverso determinate azioni, e la credibilità che si è disposti a riconoscergli.
Chi appare credibile per alcuni, può non esserlo per altri o, almeno, può non esserlo per le stesse ragioni. Nei fatti: i sostenitori ritengono il proprio leader una persona dotata di qualità eccezionali, mentre i delatori lo considerano un esaltato, indegno anche di prendersi cura di un canile municipale.
Dal momento che il principio di credibilità non è una qualità soggettiva e personale, ma una pretesa avanzata nelle relazioni sociali, è necessario riconoscere che comunque deve essere sempre costruita mattone per mattone. Per questo, l’individuo che esercita la politica, istintivamente tende a enfatizzare, e soprattutto manipolare, i segnali della propria credibilità, per raccogliere più consenso possibile.
A questo punto, la credibilità appare sempre più come una sorta di scommessa. Una scommessa molto rischiosa, in particolare nel contesto attuale, dove appartenenze e riferimenti politici sono manifestamente aleatori.
In politica, la credibilità è alimentata da due forme di relazione: un rapporto in senso, per così dire, “verticale”, fra cittadini e rappresentanti politici; e un rapporto “orizzontale” fra un insieme di individui parte di uno stesso schieramento, che dovrebbero avere obiettivi comuni. Da questo quadro, nasce un ulteriore problema: la necessità di figure di riferimento per l’esercizio della democrazia, e la necessità di stabilire principi comunitari. Oggi il problema che ci si trova di fronte è proprio questo: quali figure di riferimento? Quale comunità? Di conseguenza: quale credibilità, se questa stessa ha contorni sempre meno definiti, in uno scenario dove governanti e governati sono su sponde opposte, separati da un oceano culturale e sociale? Il problema non è tanto il fatto che gli errori dovrebbero insegnare, quanto che non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire.
Il noto sociologo Joshua Meyrowitz ha osservato, a questo proposito, che nelle società liberal-democratiche i leader politici non hanno scelta: devono sottostare alla legge della visibilità attraverso i media. Gli fa eco lo scrittore Christian Salmon, che ha introdotto il concetto di “story telling” applicato alla politica, e che ha notato come, per la classe politica attuale, esista una sorta di relazione di proporzionalità inversa fra posizioni effettive in un organismo di governo, e la presenza sui media: tanto minore è il controllo delle prime, tanto più intensa deve essere la seconda.
La visibilità è ormai un imperativo nella “democrazia mediatica”, a cui non ci si può più sottrarre. Questo è il motivo principale che spiega perché esistano, o siano esistiti nel recente passato, leader politici che prima di scendere in campo si sono assicurati il controllo dell’informazione. Da qui ne deriva il metro di misura della credibilità nell’azione di governo, e la spia di come sia diventata un’arte sopraffina la comunicazione di massa, potentissima arma nell’influenzare l’opinione. La credibilità non riguarda più esclusivamente la competenza politica o l’abilità nell’argomentare, ma la totalità delle caratteristiche personali. In questo spostamento acquista rilevanza la dimensione del rapporto fra cittadino e leader.
Quali sono i rischi di questo rapporto? Di certo è possibile, in teoria, osservare più da vicino l’azione di un individuo nella sua azione politica, il quale però non può essere in grado di tastare, in tempo reale, il polso della reazione che il suo comportamento genera nella pubblica opinione.
Il rischio è che l’esposizione, attraverso media e social-media, contribuisca a un drastico calo della considerazione del proprio ruolo, poiché porta alla luce ciò che prima era confinato nel “dietro le quinte”. In sostanza, un’arma a doppio taglio.
La visibilità mediatica può produrre un profitto in termini di notorietà, ma espone al tempo stesso il leader al rischio di un limitato controllo della propria immagine. Una dichiarazione inappropriata risulta immediatamente controproducente, senza possibilità di recupero, con conseguenze negative in termini di consenso. In poche parole, si ribadisce il concetto hegeliano: “Nessuno è un grande uomo per il suo cameriere”. Quando i “camerieri” sono svariati milioni di cittadini (elettori), il rischio e direttamente proporzionale.
Come ha osservato il sociologo Niklas Luhmann, la credibilità si basa necessariamente su informazioni preliminari, riguardanti il soggetto che si propone come credibile, senza la quale non si otterrebbe alcuna fiducia ma, al tempo stesso, contiene sempre una incognita, limite e rischio costitutivo. Per questo la credibilità, non solo in politica, necessita di continuo riscontro.
Nel contesto italiano possiamo ricordare la affermazione di Luigi Di Maio quale riferimento politico del Movimento 5 Stelle, poi ratificata a grande maggioranza dalla cosiddetta “piattaforma Rousseau” oppure, in precedenza, la lunga sequenza di dignitari indicati più o meno esplicitam nente da Berlusconi, poi rivelatosi una sorta di Conte Ugolino che divora i propri figli.
Della credibilità fa parte anche la indubbia capacità di creare, e costruire ad arte, il proprio nemico, e relativa credibilità: creare un’immagine negativa dell’avversario, e quindi smontarla pezzo per pezzo, secondo tempi e modi prestabliti.
Anche in questo caso di esempi ce ne sono a non finire. Uno per tutti, l’elezione politica 1994, con discesa in campo di Berlusconi. Un punto di svolta che ha segnato un percorso da allora sempre più in discesa. Arrivando alle elezioni politiche più recenti, nel 2018, abbiamo assistito all’affermarsi del metodo cosiddetto “Hate Speech”, ovvero lo screditare senza pause il proprio avversario. Una tecnica finemente messa a punto soprattutto dagli esperti al servizio di Berlusconi, il quale ha inondato l’opinione pubblica di epiteti come “Nella mia azienda li prenderei per pulire i cessi” (riferito ai 5Stelle); oppure un Alessandro Di Battista che, prima della formazione del governo giallo-verde, si è rivolto all’alleato Salvini, dicendo che era come il cagnolino Dudù di Berlusconi. Per non parlare dell’ormai famoso appellativo “psiconano” affibbiato da Grillo al Cavaliere, così come quelli che il “garante” dei 5Stelle ha rivolto a Matteo Renzi: “minorato morale”, “il nulla che parla”, “pollo che si crede un’aquila”. Come risposta, dal fronte opposto, per conto del PD, il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, ha riunito Di Maio, Di Battista e Fico definendoli “tre mezze pippe”. Decisamente deprimente.
Il fatto è che non è certo compito di chi fa comunicazione dare il diploma di “Dottore in Credibilità”, ma non dovrebbe esserlo soprattutto per chi fa politica: tale riconoscimento non può essere unilaterale e asimmetrico, dalla base al vertice e dalla periferia al centro, ma deve assumere un carattere di reciprocità, soprattutto quando la governance di uno Stato dimostra, fin troppo evidentemente, caratteri di “stanchezza”, per non dire di totale esaurimento.
La politica italiana sta mostrando il lato peggiore, che guarda solo all’autoconservazione. Tutti si muovono in difesa di una poltrona, di una posizione, di un pezzo di potere. I richiami all’interesse del Paese sono letteralmente strumentalizzati per una scelta di parte sempre più contorta, con manifestazioni di palese presa in giro della comunità pubblica. Prova ne sia il fatto che sia possibile, per un qualsiasi rappresentante di governo, decidere di uscire dal proprio schieramento e dare vita a un nuovo fronte politico, di fatto autorizzato a sedere in Parlamento. Secondo i principi di quella che dovrebbe essere la democrazia, certo è possibile staccarsi dalla propria lista, ma prima di sentirsi autorizzati a partecipare all’azione di governo, il nuovo schieramento dovrebbe essere legittimato dal voto dei cittadini. E ormai da tempo, purtroppo, non è più così. Intanto, il Paese continua a soffrire per la ormai cronica incapacità di fornire le risposte che servono.
Al danno si aggiunge poi la beffa, se si considera l’informazione e la disinformazione, a getto continuo, e costante ricerca di una parte allineata della stampa, pronta a prestarsi al gioco per conservare posizioni, o appropriarsi di nuove, in uno scenario sempre meno caratterizzato dalla preparazione e dalla meritocrazia.