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‘Sblocchiamo un ricordo…’ Category

11 Aprile 2023 – Redazione

 

QUANTE VOLTE CI SIAMO CHIESTI COME E QUANDO LA POLITICA SI SIA INTRODOTTA A GAMBA TESA NELLA COMUNICAZIONE DELLA RAI ( ALLA QUALE PAGHIAMO UN COSPICUO CANONE ANNUALE)  IMPEDENDO LA DIVULGAZIONE DELLA VERITÀ NELLA SUA INTEGRITÀ E INTEREZZA, O, IN ESTREMA RATIO, OMETTENDONE IL SUO RACCONTO. NON È SEMPRE STATO COSÌ. TUTTO COMINCIÒ NEL 1975, ANCHE SE LE APPARENTI INTENZIONI DI ALLORA, NON SEMBRAVANO ESSERE QUELLE CHE POI SI SONO RIVELATE! E IN QUESTI TRE ANNI DI PDICOPANDEMICO DELIRIO, IL GIORNALISMO ISTITUZIONALE HA SAPUTO DARE IL PEGGIO DI SE’ SENZA RISERVE!

BUONA LETTURA

Marzia MC Chiocchi

 

 

Spartizione di incarichi e di posizioni di potere sulla base dell’appartenenza politica e a prescindere da requisiti di professionalità e di merito. È un’attività generalmente attribuita ai partiti politici e riguarda soprattutto il mondo dell’informazione. L’espressione, tipica di un fenomeno conosciuto anche in altri Paesi, nasce o almeno si diffonde, in Italia, dopo la riforma del sistema radiotelevisivo pubblico del 1975. Con quel provvedimento si voleva salvaguardare l’autonomia del servizio pubblico radiotelevisivo dal Governo, ponendo la RAI sotto il diretto controllo del Parlamento. Nelle migliori intenzioni del legislatore, le reti e testate radio-televisive avrebbero potuto confrontarsi tra di loro in un regime di libera concorrenza. Si registrò invece il massiccio intervento dei partiti che si esercitò in un vero e proprio potere di nomina dei direttori e dei responsabili delle reti e testate radio-televisive, nonché in una attività di spartizione determinata dal peso di ciascuna forza politica. In quel periodo era notorio che il TgUno fosse di appartenenza democristiana, il TgDue di appartenenza socialista e il TgTre di appartenenza del Partito comunista italiano. La stessa regola valeva anche per le testate radiofoniche: il GrUno al PSI, il GrDue alla DC e il GrTre di area laica e socialdemocratica.

Nella sua peggiore manifestazione la legge si configurò anche come pratica di assunzioni, nomine e promozioni fatte in base all’appartenenza politica dei beneficiati piuttosto che sulla loro professionalità. Pur essendo riferita prioritariamente alla Rai, la regola non risparmiò molti altri settori dell’editoria e del giornalismo in Italia. Ciò rese senz’altro più difficile l’esercizio della professione giornalistica secondo le regole della deontologia professionale, limitò l’autonomia delle singole testate, assoggettò la libertà personale di chi occupava indebitamente un posto di potere alle pressioni di questo o di quel partito, di questo o di quell’uomo politico.
L’espressione è stata parzialmente accantonata nei primi anni Novanta, soprattutto dopo la crisi dei partiti politici seguita all’inchiesta su Tangentopoli. In quel periodo il consiglio di amministrazione della Rai venne ridotto a soli cinque membri nominati dai presidenti di Camera e Senato; vennero unificate le tre testate radiofoniche; si cominciò a parlare di par condicio, cioè di pari dignità di accesso di tutte le forze politiche al mezzo radio-televisivo; cominciò a farsi strada con forza il problema dell’antitrust, cioè delle restrizioni alla concentrazione di testate giornalistiche nelle mani di un solo editore; si accentuò il dibattito sul conflitto di interessi, in seguito all’impegno politico dell’imprenditore Silvio Berlusconi, proprietario di tre televisioni nazionali. Si sentì parlare in quel periodo di ‘delottizzazione’, cioè di progressivo abbandono delle pratiche lottizzatorie.

Oggi si ritiene che la lottizzazione non venga più esercitata con la sistematicità di un tempo. ( A PAROLE SCRIVIAMO NOI ). Nelle nomine e nelle promozioni si tiene tuttavia ancora conto di una certa appartenenza ‘d’area’ che garantisca in qualche modo la maggioranza di Governo e la sua opposizione.
L’affermarsi delle scuole di giornalismo e le assunzioni di giornalisti per concorso possono contribuire ad affrancare dalla lottizzazione l’accesso alla professione dei giovani giornalisti? Mah!!!

Fonte:

Come citare questa voce
Preziosi Antonio , Lottizzazione, in Franco LEVER – Pier Cesare RIVOLTELLA – Adriano ZANACCHI (edd.), La comunicazione. Dizionario di scienze e tecniche, www.lacomunicazione.it (10/04/2023).
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10 Aprile 2023 – Redazione

 

Il lunedì dopo la Pasqua, chiamato Pasquetta o Lunedì dell’Angelo, è considerato un giorno di festa e rappresenta un momento importante dal punto di vista religioso. Notoriamente in Italia si è soliti festeggiare in compagnia degli amici, con gite fuori porta, passeggiate in mezzo alla natura e non solo. Ma perché si chiama così e qual è l’origine di questa festa? Scopriamolo assieme in questo articolo!

L’origine del nome e della festa 

La domenica di Pasqua è il giorno in cui si celebra la resurrezione del Signore e rappresenta una delle feste più importanti per i cristiani. Il giorno seguente, il lunedì di Pasquetta o il Lunedì dell’Angelo, è dedicato all’episodio che ci viene raccontato nel Vangelo, secondo cui le donne si recano al sepolcro di Gesù dopo la sua morte. Una volta giunte sul posto, non trovano il corpo del Signore ma un Angelo che le aspetta. In questo momento le donne ricevono la grande notizia con le parole dell’Angelo:

“Non abbiate paura, voi! So che cercate Gesù il crocifisso. Non è qui. È risorto, come aveva detto; venite a vedere il luogo dove era deposto. Presto, andate a dire ai suoi discepoli: È risuscitato dai morti, e ora vi precede in Galilea; là lo vedrete. Ecco, io ve l’ho detto.”

Un messaggio semplice e importante che racchiude in sé la notizia più bella, Gesù è risorto. Un giorno così gioioso non poteva che essere ricordato e celebrato nella religione cristiana ed è per questo che uno dei nomi di questa giornata è proprio Lunedì dell’Angelo, in onore dell’incontro tra le donne e l’Angelo.

Ma questo non è l’unico nome, a volte si sente parlare anche di Lunedì di Pasqua. La ragione è molto semplice. Questa espressione nasce dal fatto che la festa di Pasqua dura otto giorni, l’Ottava di Pasqua. Il lunedì è considerato dunque un proseguo della Pasqua e un suo prolungamento, ecco perché viene chiamato anche Lunedì di Pasqua.

E il termine Pasquetta?

Si tratta di una tradizione popolare. Questo termine infatti è una rivisitazione del nome Pasqua, un vezzeggiativo che indica questo giorno come una piccola Pasqua. Un giorno di gioia e di festa ma non importante come la domenica e per questo si discosta dal suo significato religioso. Oggi rappresenta un giorno ricreativo e festivonella tradizione civile, accompagnato da feste e scampagnate in compagnia degli amici.

Come si festeggia il Lunedì dell’Angelo

La Pasquetta non è una festa di precetto ma viene celebrata ogni anno in tanti modi diversi a seconda della regione. Nei comuni italiani possiamo assistere a cortei e celebrazioni religiose, come ad esempio l’incontro tra Gesù Risorto e Maria, un rituale che accompagna questa giornata nel comune di Mongiuffi Melia a Messina, dove la statua di Gesù Risorto parte dalla Chiesa di San Sebastiano mentre quella di Maria coperta da un velo nero parte dalla Chiesa di San Nicolò di Bari. Quando le due statue si incontrano al “Piano degli Angeli”, il velo nero della Madre Vergine viene sostituito con uno bianco e viene incoronata con i fiori colorati. L’incontro è accompagnato dal canto degli “angeli di Maria”, le voci dei bambini del paese tra i 5 e i 10 anni.

A Santa Venerina, in provincia di Catania, in occasione di questa giornata vengono aperte le tre cappelle in cui si svolgono le celebrazioni eucaristiche: Maria Santissima del Carmelo, Madonna delle Grazie e Santa Venera.

Anche all’estero si festeggia il Lunedì dell’Angelo. In Polonia ad esempio, la tradizione vuole che gli uomini inseguano le donne per fare scherzi d’acqua, mentre negli Stati Uniti si scatena la caccia alle uova nel giardino della Casa Bianca.

Tra tradizioni popolari e religiose, questa giornata ci consente di prolungare i festeggiamenti della Resurrezione di Gesù, con il cuore pieno di gioia per questo grande avvenimento.

 

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08 Aprile 2023 – Redazione

 

Tra pochi giorni si festeggia la Pasqua: uno dei simboli più riconosciuti di questa festività è il cosiddetto “Uovo di Pasqua”; in questo articolo cercheremo di ripercorrere la sua antica storia.

Le origini dell’uovo di cioccolato sono da ricondurre al re Sole, Luigi XIV. Fu lui che per primo, a inizio Settecento, fece realizzare un uovo di crema di cacao al suo chocolatier di corte. L’usanza di regalare le uova a Pasqua però è più antica e si perde nel lontano Medioevo. La scelta di regalare un proprio uovo non è casuale. Fin dall’antichità questo alimento ha ricoperto un valore simbolico enorme. In alcune culture Terra e Cielo, unendosi, formavano proprio un uovo, simbolo di vita. Per gli antichi Egizi l’uovo era invece l’origine di tutto e il fulcro dei quattro elementi (aria, acqua, terra e fuoco). Siccome in Primavera la natura risorge, i Persiani amavano poi regalarsi proprio delle uova, simbolo di nuova vita.

Il cristianesimo affianca queste tradizioni e le reinterpreta alla luce delle Nuove Scritture: l’uovo diventa così il simbolo che meglio coglie il significato del miracolo della Resurrezione di Cristo.

L’usanza di regalarsi uova si diffonde a partire dal Medioevo, in Germania. Qui tra la gente comune la consuetudine era distribuire uova bollite, avvolte in foglie e fiori in modo che si colorassero naturalmente. Tra i nobili e gli aristocratici invece si diffuse l’abitudine di fabbricarne alcune di argento, platino o oro, decorate.

Se oggi nell’uovo di Pasqua troviamo una sorpresa è meritò di Fabergé, il creatore delle uova Matrioska. Ma non tutti su questo, concordano. C’è chi ricorda come già nel Settecento dalle parti di Torino c’era infatti l’usanza di inserire un piccolo dono dentro le uova di cioccolato.

Secondo quest’altra interpretazione potrebbero essere stati quindi proprio i Piemontesi, maestri nell’arte del cioccolato, i primi a lanciare la moda delle uova pasquali con sorpresa.

In diverse tradizioni pasquali l’uovo continua a mantenere un ruolo durante tutto il periodo delle festività. Durante il periodo di Quaresima, in virtù del digiuno, le uova vengono spesso non consumate ed accumulate per il periodo successivo. Nella tradizione balcanica e greco ortodossa l’uovo, di gallina, cucinato sodo, da secoli viene colorato, tradizionalmente di rosso, simbolo della Passione, ma in seguito anche di diversi colori, in genere durante il giovedì santo, giorno dell’Ultima Cena, e consumato a Pasqua e nei giorni successivi. Il giorno di Pasqua, in molti riti, si compie la benedizione pubblica delle uova, simbolo di resurrezione e della ciclicità della vita, e la successiva distribuzione tra gli astanti.

Prima del consumo, in particolare nella tavolata di Pasqua, ognuno sceglie il proprio uovo e ingaggia una gara (τσούγκρισμα) con i commensali, scontrandone le estremità, fino ad eleggere l’uovo più resistente. Questo viene considerato di buon augurio. Le colorazioni vengono effettuate attualmente con coloranti alimentari tipici della pasticceria, ma in passato si utilizzavano prodotti vegetali, tra cui la buccia esterna delle cipolle di varietà rossa.

Successivamente, prevalentemente nel XX secolo ma con prototipi torinesi risalenti al Settecento[4], è invalsa la moda dell’uovo di cioccolata arricchito al suo interno da un piccolo dono. Se fino a qualche decennio fa la preparazione delle classiche uova di cioccolato era per lo più affidata a maestri artigiani, oggi l’uovo di Pasqua è un prodotto diffuso soprattutto in chiave commerciale. La preparazione delle uova di Pasqua delle più svariate dimensioni trova inizio anche più di un mese prima del giorno della Pasqua, come effettivamente accade anche per l’albero di Natale nel periodo natalizio. La produzione delle uova di cioccolato, in Italia, è affidato per la maggiore alle grandi ditte dolciarie. Attualmente, però, sembrano trovare ampi campi di diffusione le uova a tema, cioè uova di Pasqua incentrate su un cartone animato, un film o una squadra di calcio.

Ciò nulla toglie alle classiche uova di cioccolato preparate artigianalmente che sono tuttora molto diffuse in vari Paesi. In alcuni di essi, come la Francia, è tradizione istituire in aree verdi delle cacce pasquali al tesoro, in cui le uova, preparate artigianalmente e di dimensioni ridotte, vengono nascoste fra gli alberi e vengono poi ritrovate dai bambini. Tale tradizione sta oggi però affievolendosi per via della diffusione globale dell’uovo pasquale prodotto e distribuito commercialmente.

In molti altri paesi, infine, all’uovo di cioccolato viene ancora anteposto l’uovo di gallina solitamente cucinato sodo. Anche nei paesi di religione ortodossa, tuttavia, permane la tradizione delle uova di gallina, in risposta alla diffusione delle uova prodotte commercialmente, giudicate dagli ortodossi una strumentalizzazione consumistica della Pasqua. In Italia l’uovo sodo come simbolo pasquale è rimasto presente soprattutto accompagnato dalla tradizionale colomba pasquale o durante il pranzo. Anche in Arabia l’uovo di Pasqua rappresenta la resurrezione di Gesù.

Fonte: isinnova.it

La stravagante e bellissima storia delle uova Fabergé

Gioielli imperiali, tesoro mondiale, così è nato il mito di questi accessori incredibili.

A partire dal primo uovo gioiello per l’Imperatrice del 1885, in occasione della Pasqua di ogni anno fino al 1917 (a sola esclusione del 1904 e del 1905, anni della guerra tra Russia e Giappone), l’abile orafo realizzò cinquantasette uova di Pasqua in oro, gemme e metalli preziosi, sempre costruite secondo il meccanismo a scatola cinese, e dunque custodi di sorprese legate alla simbologia imperiale.

Questa tradizione continuò fino alla Rivoluzione d’Ottobre, quando le Uova di Fabergé avevano ormai conquistato popolarità in molte parti d’Europa. Un anno prima, nel 1916, Fabergé rese la sua gioielleria una società per azioni, ma con la vittoria dei bolscevichi essa venne nazionalizzata, e così il gioiellerie fu costretto a scappare prima in Germania e poi in Svizzera. Fabergé rimase profondamente colpito dalla rivoluzione russa, alla quale si oppose strenuamente, e morì pochi anni dopo, nel 1920.

La fama e la bellezza delle sue uova rimane però intatta negli anni: basti pensare che un piccolo ovetto Fabergé fu scelto dalla diva Liz Taylor come ciondolo prediletto per una sua collana, che oggi nelle migliori case d’aste ne vengano battuti rari esemplari a prezzi grandiosi, o che una delle creazioni dell’orafo dell’imperatore è stata protagonista del tredicesimo episodio della saga Agente 007,e del film campione d’incassi Ocean’s Twelve.

Fonte: Harper’s Bazaar

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07 Aprile 2023 – Redazione

 

Il testo è inserito nel libro di Vincenzo Varagona “I segreti del Moby Prince. A 30 anni dalla più grande tragedia” (gennaio 2021)

Due brevi premesse

1. I fatti di cui parleremo si riferiscono ad eventi tragici avvenuti prima dell’esecuzione di Ilaria e Miran: non necessariamente collegati strettamente ma perché avvenuti in un contesto che non doveva avere “elementi di disturbo”.

2. Ogni avvenimento ha un tempo dell’accadimen­to, un tempo del “prima”, un “tempo” del dopo. È necessario connettere questi tre tempi per capire, per raccontare una storia… perché se “E’ difficile sapere che cosa sia la verità è molto facile riconoscere la falsità”(A. Einstein): può aiutare (riconoscere le falsità) per arrivare alla verità.

Il contesto Somalo e il contesto italiano (da fine anni ’70/80) vanno ben tenuti presenti se si vogliono capire le ragioni dell’uccisione crudele di Ilaria e Miran e quelle successive alla loro morte che ne hanno occultato con ogni mezzo le responsabilità italiane e oltre (esecutori e mandanti).

In Italia: tangentopoli e crollo del sistema dei partiti, le stragi di mafia (Falcone e Borsellino 1992, 1993 bombe a Firenze e Roma Milano, 1994 fallito attentato di mafia allo stadio (Report della settimana scorsa svela le connessioni P2 Licio Gelli, mafie criminalità organizzata pezzi di politica per scopi nefasti).

In Somalia la caduta di Siad Barre e la guerra civile che si scatena.

In particolare ci interessano qui alcuni fatti tragici accaduti in Somalia e in Italia che collegano le vicende Somale alle vicende Italiane.

Si sa che la cooperazione italiana in Somalia nel decennio anni 80 ha speso migliaia di miliardi per opere di aiuto allo sviluppo come la stra­da Garoe Bosaso e i sei pescherecci oceanici della società Shifco.

26 settembre 1988 Mauro Rostagno, comunità Sa­man vicino a Trapani, viene assassinato da un com­mando mafioso. Anche di questo delitto non si co­nosce ancora tutta la verità anche se la sentenza del 2018 ha sancito che si è trattato di un delitto di mafia.

Si sa che Rostagno denunciava l’intreccio micidia­le tra mafia, massoneria deviata e politica corrotta, che era stato minacciato; che Tra­pani in quegli anni era punto nevralgico del traffico d’armi con la Somalia ai tempi della cooperazione con Siad Barre.

Che lì è presente Gladio, la struttura segreta dell’intelligence militare, il cui responsabile è il maresciallo Vincenzo Li Causi, del Sismi.

Si sa che spariscono subito una audiocassetta sulla quale avrebbe registrati i nomi di mafiosi e di massoni (fra cui Cardella), e una videocassetta dove avrebbe filmato l’atterraggio di aerei C130 con carichi… “segreti”.

9 luglio 1989 Monsignor Salvatore Colombo, vescovo di Mogadiscio, viene assassinato nella sua cattedrale.

Si sa del suo amore per la popolazione somala e del suo intenso impegno per la pacificazione del paese e per scongiurare la guerra civile.

Il 26 gennaio 1991 Siad Barre è cacciato dalla Somalia.

Si sa che da lì parte la guerra civile che ancora insanguina la Somalia.

10 aprile 1991 In Italia a Livorno è la sera della tragedia del Moby Prince: 140 morti un solo super­stite. Una tragedia ancora senza verità.

Si sa che al porto di Livorno è presente il pesche­reccio “21 Oktobar II”, la nave madre dei sei pesche­recci della Shifco donati dalla cooperazione italiana alla Somalia durante la sanguinaria dittatura di Siad Barre. Un “dono” che ha una storia piuttosto singolare ed allarmante che inizia nel 1979 ( si veda la nota alla fine del testo). Allora, solo “gli addetti ai lavori” co­noscono la 21 Oktobar II, la Shifco, la storia della cooperazione italo somala, della sua contiguità con traffici di armi e di rifiuti tossici.

Ma di certo Ilaria la conosce ancora prima di andare a Mogadiscio la prima volta a dicembre 1992. Nel 1990 la sinistra indipendente inizia la pubblicazione in Parlamento di dossier che svelano la “mala cooperazione” con i paesi in via di sviluppo: avranno come esito l’approvazione della legge istitutiva della commissione bilaterale d’inchiesta con i Paesi in Via di sviluppo (poco prima dello scioglimento delle camere febbraio 1994!). Uno di questi dossier, curato da Ettore Masina, è dedicato per intero alla Somalia (1991): Ilaria lo aveva tra la sua documentazione in ufficio a Saxa Rubra).

Si legge nella premessa:

“L’analisi degli interventi di Cooperazione Italiana in Somalia che viene sviluppata nei

capitoli 3,4, e 5 conduce ad alcuni drammatici “peccati capitali“.

… La Cooperazione ha subito pesantemente la logica di interessi particolari

espressi in Italia da aziende, lobby e gruppi di pressione, che niente avevano a che fare

con i bisogni reali della Somalia. Questa logica ha remunerato interessi illegittimi in

Somalia e in Italia, ha contribuito gravemente ad accentuare la corruzione ed il distacco

definitivo dell’Amministrazione Somala dai bisogni espressi dal paese.

I peccati capitali principali sono descritti e sono anche quelli di cui Ilaria si occuperà nelle sue sette missioni in Somalia (scoprendo la contiguità di questi “peccati” con traffici illeciti e criminali di armi e di rifiuti tossici, radioattivi anche). Si legge:

…la parte più cospicua è costituita dalla strada Garoe Bosaso (260 miliardi).

Questa strada attraversa per lo più le due regioni di Bari e Sanaag, abitata da 200.000-

300.000 persone sparse su una superficie di 20.000 km2, quasi interamente pastori

nomadi che vivono dell’economica del cammello. Sembra perfino comico chiedersi quale

beneficio possano trovare questi da quel magnifico nastro d’asfalto.

il porto di Bosaso, altro progetto concentrato e assolutamente sproporzionato rispetto ad ogni suo futuribile utilizzazione,

…. Progetto Pesca Oceanica (quello dei pescherecci della Shifco): costo totale di circa 100 miliardi.

Le inchieste della Magistratura, le commissioni d’inchiesta e governative che si sono occupate del caso Alpi hanno accumulato una enorme mole di documentazione che dimostra come la cooperazione fosse in realtà “a rovescio”: non partendo dai bisogni della popolazione, la più povera del pianeta colpita, da malattie carestie guerre. Come si può verificare da quanto dichiarato dalla dottoressa Gemma Gualdi che a Milano se ne occupò per prima su delega di Di Pietro.

“….il valore complessivo dell’affare relativo alla fornitura delle prime tre navi era approssimativamente di 30 miliardi mentre quello riferito alle seconde tre navi ammontava a circa 60 milioni di dollari Usa; in realtà il costo dei materiali e delle tecnologie utilizzate e concretamente fornite non superava .. un terzo della somma effettivamente erogata. Pertanto i due terzi del finanziamento sarebbero serviti per altre esigenze… (dall’audizione della dott.ssa Gemma Gualdi alla Commissione bicamerale d’inchiesta 1995, l’inchiesta era stata avviata all’inizio del 1994 e dopo la morte di Ilaria fu trasferita a Roma)

Queste dichiarazioni (ce ne sono anche altre) e il gioco di scatole cinesi attraverso il quale falliscono società (per approdare alla fine alla Shifco, se ne costituiscono di nuove con un mix tra società costruttrici italiane e di gestione somale o miste italiano/somale) ci fanno intuire che, probabilmente, si sta realizzando in quegli anni un riequilibrio di potere tra aree politiche riferite al PSI di Craxi (c’è una foto che immortala Bettino Craxi e Omar Mugne davanti alla 21 Oktober II) e a quelle riferite ad Andreotti oltre alla constatazione severa che anche a tale scopo viene utilizzata la cooperazione italiana (sono gli anni del FAI di Francesco Forte).

Va ricordato “en passant” che una settimana dopo l’esecuzione in Italia il 27 marzo Silvio Berlusconi vince le elezioni: è la fine della prima Repubblica.

….”Questa sorta di prassi a metà tra il politico e l’economico si basava sostanzialmente sull’invogliare gli imprenditori italiani a fornire delle opere e dei servizi nel Paese somalo… In realtà si trattava spesso di opere e servizi che non servivano assolutamente a nulla ma che comunque di fatto venivano finanziate dal ministero degli Affari esteri italiano… è emerso qualche elemento grave in merito al comportamento degli italiani: “…si mangiavano un 30-40 per cento rispetto al valore complessivo dell’affare”…(è sempre la dott.ssa Gemma Gualdi).

Come è noto l’ultima tappa di Ilaria prima di essere uccisa è stato il porto di Bosaso centro economico e finanziario di tutta la regione del nord est della Somalia che, negli ultimi mesi era stato oggetto di “pirateria” (una storia complessa!). Un peschereccio della Shifco, la Farah Omar proprio in quei giorni era sotto sequestro da parte di “pirati migiurtini”: di questo aveva parlato con il sultano di Bosaso; aveva chiesto di poter salire sulla nave forse vi riuscì incontrando anche il capo della Shifco.

C’è l’intervista al sultano di Bosaso (che ci è giunta molto mutilata!). Ma il sultano è stato audito in estremis dalla commissione d’inchiesta e ha fatto rivelazioni sui traffici di armi e rifiuti coinvolgendo la Shifco e raccontando che Ilaria arrivò da lui già molto informata e solo per avere “conferma” dei vari traffici.

Si sa che c’è una storia parallela, una trama che potrebbe incrociarsi con quel viaggio a Bosaso di Ilaria e Miran.

Si sa di un messaggio partito proprio il 14 marzo forse dal comando carabinieri SIOS di La Spezia diretto a un Maggiore in servizio a Balad (il SIOS è il servizio segreto della marina sciolto nel 1997): “Causa presenze anomale in zona Bos/Lasko (Bosaso Las Korey, nda) ordinasi Jupiter rientro immediato base I Mog”… “Ordinasi spostamento tattico Condor zona operativa Bravo possibile intervento”.

Tali presenze anomale a Bosaso potrebbero rife­rirsi a Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Jupiter potrebbe essere Giuseppe Cammisa, il braccio destro di Francesco Cardella, guru della comunità Saman (e amico di Craxi), morto il 7 ago­sto 2011 a Managua, dove si era rifugiato da diversi anni per sfuggire alla giustizia italiana.

Che stava accadendo in quella città il giorno dell’ar­rivo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? E chi è Condor?

Si sa d’altra parte che l’intelligence italiana ha mentito sostenendo di non avere nulla a che fare con la città di Bosaso.

Si sa che Cammisa era in quella zona, che l’a­ereo, partito da Gibuti il 16 marzo e che arriva a Bosaso (con a bordo il personale di Africa 70 e for­se anche Cammisa) è lo stesso che avrebbe dovuto riportare a Mogadiscio Ilaria e Miran.

Si sa che i due giornalisti “persero” quell’aereo perché qualcuno ha voluto che lo perdessero (è partito prima dell’orario).

Si sa infatti che in una nota di Alfredo Tedesco, agente del Sismi, del 21 marzo 1994 si legge che Ilaria Alpi era stata minacciata di morte a Bosaso nei giorni precedenti il suo assassinio;

Si sa che in una ufficiale lettera della Farnesina (22 marzo 1994) si legge che Ilaria è stata “trattenu­ta”a Bosaso, se pur per breve tempo, da esponenti di clan locali.

Dunque la sera della tragedia del Moby Prince la 21 Oktobar II stava nelle acque del porto di Livorno. Siamo nel 1991, tre anni prima dell’esecuzione di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin. Tangentopoli scoppierà un anno dopo, così come le stragi di mafia. E’ evidente che solo “gli addetti ai lavori” conoscono la 21 Oktobar II la Shifco, la storia della cooperazione italo somala, della sua contiguità con traffici di armi e di rifiuti tossici di cui abbiamo oggi ampia documentazione che riguarda anche l’insieme dei sei pescherecci donati dall’Italia alla Somalia sui quali Ilaria stava indagando. E dunque anche chi indaga sulla strage di 140 persone (bruciate vive) non se ne occupa, non dà rilievo alla presenza di questo peschereccio in porto: grave “omissione” per autorità istituzionali.

E’ solo dopo la duplice esecuzione di Mogadiscio che si potrà vedere come inquietante la presenza della 21 OktobarII (che risulta a Livorno fin dal 29 marzo 1991 con la presenza del suo capo Omar Mugne).

Ufficialmente la 21 October II si trova lì per riparazioni (dovrebbe quindi trovarsi a secco in officina) eppure – la notte della strage – chiede di essere rifornita di carburante e si mette in navigazione. Tornerà al porto di Livorno il giorno dopo. (C’è una testimonianza che certifica gli avvenuti spostamenti).

C’è anche un’altra particolarità: sembra che il capo della SHifco Omar Mugne (in realtà diventa Presidente della Shifco-Malit proprio qualche mese dopo la tragedia del Moby: 6 settembre) lasci Livorno per recarsi a Reggio Emilia qualche giorno prima della tragedia del Moby mentre il suo braccio destro F. Mancinelli rimane a Livorno. E’ il SISMI a segnalarlo: … “l’ambasciatore somalo Yussuf Ali Osman, l’addetto militare somalo Mohamed Hassan Hussein e tale Mugne Omar hanno soggiornato presso l’albergo Astoria, di Reggio Emilia, nei giorni 6 e 7 aprile, con partenza il giorno 8 aprile… Per il momento non si è avuta notizia dell’incontro dei somali con il Giovannini (un nome che si ritrova spesso per traffici ndr). Il sospetto è che Mugne, l’addetto militare e l’ex ambasciatore siano impegnati nell’organizzazione di un traffico d’armi…”

12 novembre 1993 (Ilaria ha lasciato la Soma­lia il 24 ottobre: è la sua sesta volta) a Balad viene ucciso in un agguato il maresciallo del SISMI Vin­cenzo Li Causi in circostanze misteriose.

Si sa che non c’è una sola versione dell’accaduto, che si parla di “fuoco amico” e che anche per lui non si farà autopsia ma che gli verrà assegnata la medaglia d’oro al valore.

Si sa che Li Causi (si conoscevano con Ilaria) doveva rientrare a Trapani un paio di giorni dopo per testimoniare al processo su Gladio, (la strut­tura “segreta” dell’intelligence militare di cui era responsabile)

1 ottobre 1993 Giancarlo Marocchino viene ar­restato da Unosom, la forza militare internaziona­le di pace, con l’accusa di traffico di armi e altre at­tività illecite e gravi; su intercessione italiana viene liberato, espulso dalla Somalia, portato in Italia e fatto rientrare a Mogadiscio a fine gennaio 1994.

Si sa che era anche accusato di complicità coi fatti del 2 luglio 1993 perché l’abitazione di Marocchino sarebbe stata utilizzata come base di tiro e punto di riarmo contro le forze italiane (nell’evento, noto come combattimento del check point pasta, vengo­no uccisi 3 soldati italiani e feriti 22; almeno 67 so­mali vengono uccisi, oltre 100 feriti). Il comando militare aveva sequestrato nel marzo precedente materiale bellico compresa una parte rilevante di miccia detonante proprio come quella delle tracce rinvenute sulla Moby Prince .

Si sa che la Procura della Repubblica di Roma, PM dott. Pietro Saviotti, fascicolo N. 15148/93 R apre un’indagine su Giancarlo Marocchino e sulle accuse nei suoi confronti.

Si sa anche (dallo stesso fascicolo) che il 22.12.1993, l’ambasciatore Mario Scialoia fa pressioni sul quar­tier generale di Unosom 2 perché Marocchino sia autorizzato a rientrare in Somalia;

Si sa che Scialoja comunica a Unosom l’avvenu­ta archiviazione da parte della Magistratura italia­na delle accuse a carico di Marocchino. Ma è falso perché

Si sa che il 18.1.1994 per UNOSOM il generale Howe firma la revoca del provvedimento di espul­sione mentre Marocchino è già a Nairobi. E rientre­rà a Mogadiscio a fine gennaio 1994.

Si sa che in realtà il PM farà richiesta di archi­viazione solo in data 14/4/1994 (subito dopo il du­plice omicidio di Mogadiscio) ed il GIP pronuncerà il relativo decreto addirittura il 17/7/95!)

L’11 marzo 1994 Ilaria, da poco rientrata dalla ex Yugoslavia dove ha lavorato con Miran Hrovatin, parte insieme a lui da Pisa per la Somalia.

Si sa che il 12 mattina (sabato) arrivano a Moga­discio. Domenica 13 sono a Merca e il 14 mattina a Johar per affiggere una targa in memoria di Cristina Luinetti uccisa il 9 dicembre 1993: si parla di “fuo­co amico”. Rientrano a Mogadisco prima degli altri perché partono subito, per Bosaso.

14 marzo 1994 sera Ilaria e Miran sono già a Bo­saso; vi restano anche il 15 fino al pomeriggio; in­tervisteranno il capitano del porto e il sultano di Bosaso Ali Mussa Bogor. Poi raggiungeranno Gar­do, a metà della famigerata strada Garoe Bosaso dove hanno programmato di rientrare per partire nella tarda mattinata del 16 marzo per Mogadiscio.

Si sa che Bosaso è un porto importante che negli ultimi mesi è stato oggetto di “pirateria”. Un peschereccio della Shifco, la Farah Omar, proprio in quei giorni è sotto sequestro da parte di “pira­ti migiurtini”: di questo Ilaria aveva parlato con il sultano di Bosaso; aveva chiesto di poter salire sul­la nave forse vi riuscì e forse incontrò anche il capo della Shifco Omar Mugne.

Anche nella morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin

Ritroviamo attivati tutti i meccanismi, operati con successo per il Moby Prince, quei meccanismi che non permettono di giungere alla verità che confermano quanto è avvenuto in questi anni dolenti: depistaggi occultamenti, carte false, testimoni e/o persone informate dei fatti che hanno mentito …: il tutto spesso confezionato direttamente e/o con la complicità di parti e strutture dello Stato.

“Menti raffinatissime” sono state e sono in azione fin dai primi giorni dopo l’uccisione premeditata: l’omissione di soccorso, la sparizione del certificato di morte, dei blok notes e di alcune cassette video, la non effettuazione dell’autopsia, la violazione dei sigilli dei bagagli, la costruzione “persistente” della tesi della casualità (tentativo di sequestro finito male, il proiettile vagante …)…….

Testimoni non ascoltati, fascicoli spariti, riscontro esterno dei corpi e le foto scattate sulla nave “Garibaldi” scomparsi, il body anatomy sketching report redatto dall’agenzia mortuaria USA Brown-Root di Huston scomparso, registri di bordo delle navi e degli elicotteri incompleti, informative delle diverse intelligence trasmesse e mai arrivate e/o occultate, contraffatte…….

Si sa che Hashi Omar Hassan è stato condannato in via definitiva a 26 anni di carcere per concorso in duplice omicidio nel 2002 ma che la sentenza di Perugia dove si svolge il nuovo processo (12 gennaio 2017) si conclude con due punti importanti: Hashi è innocente; è stato il classico capro espiatorio (come conclude anche la sentenza del processo di primo grado 1999) e dunque viene rimesso in libertà dopo 17 anni di carcere; il teste principale d’accusa Ahmed Alì Rage detto Jelle ha dichiarato il falso, “coinvolto in un’attività di depistaggio di ampia portata…” , non solo relativo a questa vicenda. Si sa per esempio che l’occultamento del certificato di morte di Ilaria può essere stato alla base di un’attività di depistaggio partita fin dai primi giorni e forse ancora in atto (come trapela nella stessa sentenza e nell’opposizione alla nuova richiesta di archiviazione presentata “come risposta” alla sentenza di Perugia).

il dottor Andrea Fanelli ha respinto la terza richiesta di archiviazione avanzata dalla Procura di Roma. E’ importante che le organizzazioni dei giornalisti (Usigrai,Fnsi,Cnodg) siano state riconosciute come parte offesa e quindi che la loro opposizione all’archiviazione sia stata ammessa riconoscendo che “…Ilaria Alpi (giornalista della Rai) ha trovato la morte, unitamente al cineoperatore Miran Hrovatin, nell’esercizio e a causa della sua professione …” (come emerge dall’ordinanza del 4.10.2019).

Una storia dunque tragica che ancora non è finita. Il prossimo 20 marzo sarà il terzo senza Luciana e l’undicesimo anche senza Giorgio: la mamma e il papà di Ilaria Alpi assassinata 27 anni fa in una domenica di primavera a Mogadiscio insieme a Miran Hrovatin.

Il corso della giustizia è stato compromesso, gli assassini e chi li copre hanno potuto contare sul fatto che le tracce si possono dissolvere, che alcuni reperti sono scomparsi o non sono più utilizzabili, che molti testimoni sono morti in circostanze misteriose, che anche pezzi di Stato hanno lavorato all’accreditamento ufficiale di una falsa versione manipolando fatti reali.

Ilaria Alpi, nella sua indagine (si reca in Somalia sette volte in 15 mesi e, prima dell’ultima si reca nella ex Yugoslavia) si imbatte in una rete di traffici illegali internazionali di armi e di rifiuti tossici che interessano oltre alla Somalia altri paesi come la Slovenia e la Croazia (durante la guerra 1991/1995): la società Shifco è uno dei protagonisti come indicato da un’inchiesta dell’ONU e da una notevole mole di documenti dell’intelligence italiana e non solo.

Per quanto riguarda i rifiuti ci sono molti documenti che riferiscono di progetti dal titolo esplicito “Urano1 e Urano2” con le firme dei protagonisti Scaglione Garelli e Giancarlo Marocchino (come si sa chiacchierato imprenditore a Mogadiscio, il primo a recarsi sul luogo dell’agguato, o forse era già lì; e che continuerà e continua ad avere un ruolo chiave e ambiguo in tutte le vicende); progetti in cui è sempre coinvolta la società Shifco.

C’è uno scoop dell’Espresso il 2 giugno 2005 “Parla Francesco Fonti un pentito di ‘Ndrangheta: così lo Stato pagava la ‘ndrangheta per smaltire i rifiuti tossici”. In seguito importanti documenti vengono alla luce grazie alle commissioni antimafia ed ecomafie.

Anche per il Moby Prince, un innocente traghetto passeggeri la storia è piena di omissioni, bugie, depistaggi… vediamone alcuni:

L’Agip Abruzzo stava in una zona “divieto di ancoraggio” e proveniva da Genova e non dall’Egitto: perché si è mentito sulla posizione accertata solo dopo l’inchiesta della commissione?

Che cosa stava facendo là? Sembrerebbe che dovesse trasferire del carburante e in ogni caso bisognerebbe sapere con precisione di che tipo di carburante si trattava (inerte o infiammabile?)

Improvvisamente il Moby cambia rotta: Perché?

Non si è indagato sulle cause che sono probabilmente legate alla tragedia.

Ci può essere stato uno scoppio, un incendio e quali le cause? Non si è indagato e si sono lasciati disperdere i reperti che potevano dare certezze.

Il ritrovamento, ad esempio di tracce di esplosivo militare conosciuto e anche di miccia detonante che si ritroverà in molte altre stragi (si veda 1994 l’anno che cambiò l’Italia). Si vedano in particolare le parole del Procuratore capo di Firenze Pier Luigi Vigna che, in audizione della Commissione bicamerale n. 29 antimafia (presieduta da Tiziana Parenti 1995) ebbe a dichiarare che “…circa un anno prima della strage di Capaci (mi riferisco proprio ad aprile 1991) abbiamo avuto passaggi (si riferisce alla Toscana e a Livorno ndr) molto consistenti di esplosivi e congegni, per accensione di esplosivi, diretti a Catania“ (si riferisce a organizzazioni imperniate sui clan mafiosi dei catanesi).

Non è vero che tutti i 140 passeggeri del Moby sono morti nel giro di mezz’ora stante la violenza dell’incendio. Si può prefigurare un “mancato soccorso” (come è accaduto anche per Ilaria Alpi) se si tiene conto che la collisione con L’Agip Abruzzo è avvenuta alle 22,25 e che i primi soccorsi arrivano solo tra le 2 e le 5 del mattino dopo. Nelle conversazioni dall’Agip Abruzzo dicono di non sapere chi li ha investiti e richiamano i soccorsi sulla petroliera, esclusivamente.

Non c’era la nebbia e non si è trattato di un errore umano o di una distrazione del comandante del traghetto. C’è stato invece grande quantità di fumo sviluppatosi parecchio dopo la collisione e l’incendio che viene descritto come onde gigantesche che si alzano dal mare. La nebbia è spesso un classico che si ritrova, insieme alle nuvole, anche nel caso di Ilaria e Miran e la ricerca delle riprese del satellite USA di quel giorno.

Sul Moby c’è stata una coordinata organizzazione per mettere le persone in salvo: una parte dell’equipaggio (si legge nella relazione della commissione) è stato eroico nel tentativo di mettere in salvo i passeggeri in attesa dei soccorsi (non pervenuti. Ciò è provato dal fatto che una parte dei cadaveri indossava i giubbotti di salvataggio a conferma che forse fu un’esplosione sul traghetto prima della collisione a provocare il disastro. E, come per Ilaria, non si dispose autopsia per accertare la cause della morte di tutte le persone.

E infine Perché una imbarcazione della Shifco ricoverata in banchina per lunghi interventi di riparazione effettuerebbe un pieno di carburante? E dove farà carburante?

Quali sono le manovre portuali che deve eventualmente effettuare?

E perché non vi sono tracce registrate dei suoi movimenti? Eppure la nave non è piccola.

La notte del rogo del Moby Prince è ormai certo che, nel Porto di Livorno, è in corso una movimentazione di materiale bellico.

E’ quanto si legge anche nella relazione della commissione d’inchiesta (2017/2018). La vicinanza con la base USA Camp Darby in piena crisi del golfo potrebbe essere la ragione “della presenza di almeno 5 navi militarizzate USA quella sera …” E ce ne sarebbero almeno altre due: la 21 October II, e una nave “fantasma”, Teresa” (da messaggi intercettati e mai rintracciata; si è pure pensato che fosse “in codice” la 21 October! )

Dove venivano caricate queste armi, questo materiale bellico e di che tipo era?

Potrebbe esserne stata coinvolta la “21 Oktobar II”?

L’ultimo processo della sezione penale della Corte di Appello di Firenze si è chiuso a febbraio del 1998 senza dare risposte, forse senza cercarle con impegno. Alla fine del 2020 è stata respinta, per intervenuta prescrizione, l’istanza dei famigliari delle vittime per il riconoscimento delle responsabilità per il mancato soccorso (causa della morte di 140 persone) come sostenuto nella relazione finale della Commissione d’inchiesta che il Tribunale civile di Firenze ha considerato puramente un documento politico: fatto gravissimo trattandosi di una Commissione d’inchiesta Istituzionale (con i poteri e i limiti della magistratura). Dunque c’è ancora molto lavoro da fare.

Nota un breve riepilogo dell’ambiguo percorso che dalla Sec (la società italiana costruttrice dei pescherecci) porta alla Shifco.

Nel 1979 il ministero degli Esteri attiva il progetto Cooperazione con la Somalia (“Sviluppo Pesca Industriale”), sulla base della legge Ossola che prevede crediti di aiuto a tassi agevolati, e fa in modo che i primi 3 pecherecci destinati al governo somalo siano costruiti dalla Sec (due navi da pesca, più una nave frigorifero). Prima di Renzo Pozzo, presidente della Sec è stato il parlamentare del Psi Giovanni Pieraccini, già ministro della Marina mercantile (1973-74), ministro dei Lavori Pubblici e del Bilancio (1963-68).

Nel 1986, dopo che il “credito d’aiuto” è divenuto “dono”, il Fai rifinanzia il progetto, che prevede la riparazione delle navi (inutilizzate e quindi “arrugginite”), e la costruzione di ulteriori 3 navi (1986-87). Dunque, la Sec costruisce tutti e 6 i pescherecci, che divengono proprietà della Shifco. La gestione delle 6 navi viene affidata alla società Somitfish (Shifco + Cooperpesca dei fratelli Mancinelli), gestita dal noto Omar Mugne.

Nel 1985-86 la Cooperpesca ha comprato azioni della Shifco pagandole 350 mila dollari.

13 febbraio 1988. Renzo Pozzo (Sec) via fax suggerisce all’ing. Mugne di chiedere la restituzione delle azioni della Cooperpesca (azioni comprate in cambio di 350.000 dollari quando i tre pescherecci si trasformano in “dono” al governo somalo: l’Italia li “dona” alla Somalia, che a sua volta li “gira” in parte alla Cooperpesca di Mancinelli). Il suggerimento di Pozzo a Mugne è di dimostrare che la gestione della Somitfish è fallimentare, quindi di azzerare il valore delle azioni in modo da non restituire i 350.000 dollari; e di ridiventare, come Shifco, titolare dei pescherecci.

Aprile 1988. Pozzo acquista a zero lire (attraverso la consociata Joning Fishing) la quota azionaria del 35% della Somitfish per conto e interesse del governo somalo. La Somitfish viene messa in liquidazione, Mugne diventa responsabile del “Progetto pesca” e, su mandato dell’ente somalo corrispondente al Fai, ritira i

certificati azionari che Pozzo aveva acquistato a zero lire.

8 gennaio 1990. Viene costituita la Shifco Malit (Shifco-Mugne, e Paolo Malavasi, figlio di Ennio, della Giza).

Ottobre 1990. Il godimento delle navi passa dalla Shifco alla Shifco Malit. Dopo pochi mesi la Shifco Malit registra un deficit di circa 2 miliardi e il Malavasi vende le azioni alla Sec (quella di Pozzo) recuperando parte delle perdite.

12 giugno 1991. Mugne, per conto della Shifco Malit, conferisce alla Sec la gestione dei pescherecci, stabilendo un compenso del 5 per cento dei ricavi.

6 settembre 1991. Mugne diventa presidente della Shifco Malit.

28 febbraio 1993. Mugne e Pozzo stipulano insieme una revoca di mandato della gestione dei pescherecci alla Sec.

8 giugno 1993. Esce di scena la Sec, e la Shifco Malit viene messa in liquidazione; ritorna tutto alla Shifco di Mugne. Entra l’azienda di Panati nella gestione delle navi, anticipando i soldi necessari a ripianare le perdite della Shifco Malit, che la Sec però si è impegnata a restituire tramite Pozzo.

Il 30 giugno 1993 (dopo che la Sec è uscita di scena) Ali Mahdi, autoproclamatosi presidente della Somalia, richiede all’Italia, tramite l’ambasciata a Mogadiscio, il benestare per consegnare alla Sec la gestione “tecnica e amministrativa” della flotta di pesca oceanica e di trasporto frigorifero, proprietà dello Stato somalo; poi revoca il potere di gestione a Mugne.

Nell’agosto 1993, al comandante della nave da carico della Shifco perviene un fax dal comandante di Unosom 2 che dispone di bloccare lo sbarco in attesa che un funzionario controlli il carico, perché Unosom 2 si sarebbe sostituita allo Stato somalo nella gestione di tutti i beni, e quindi anche delle navi. In conseguenza di ciò si doveva stipulare un contratto Pia-Unosom In realtà, tutto rimane alla Shifco, anzi a Mugne , che se ne va da Mogadiscio portandosi via i pescherecci.

Fonte: Articolo 21.org (articolo di Mariangela Gritta Grainer)

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29 Marzo 2023 – Redazione – di Jenn Correa (Tourinvespa.com)

 

29 Marzo 1946, settantasette anni fa, al Circolo Golf Club dell’Acquasanta di Roma, viene presentata la Vespa, quello che poi sarà uno dei più grandi fenomeni dell’industria motoristica italiana nel mondo. Un progetto iniziato anni prima, con il prototipo soprannominato Paperino, disegnato dagli ingegneri Renzo Spolti e Vittorio Casini, ma di cui Enrico Piaggio non era del tutto convinto. Nella sua continua ricerca di una maggiore praticità, Piaggio decide di rivisitare il prototipo, affidandolo al progettista aeronautico Corradino D’Ascanio ed al disegnatore Mario D’este. Così nasce un’idea originale, rivoluzionaria, decisamente differente dal primo prototipo.

Venerdi 29 Marzo 1946, viene presentato il brevetto della Vespa 98, uno scooter del tutto innovativo e funzionale, con uno stile unico, lontano dall’idea comune di motocicletta. Nel 2021 lo “scooter più famoso al mondo” ha  festeggiato il 75° anniversario dalla sua nascita. Senza ombra di dubbio, un successo senza precedenti, che ha raggiunto migliaia di fan in tutto il mondo. Il debutto della Vespa rappresenta un sogno di libertà e voglia di ripartire dopo la fine della seconda guerra mondiale. Un sogno che, negli anni, diventerà un’icona e rappresenterà un vero e proprio stile di vita. Il nome “Vespa” tra l’altro deriva dalla spontanea esclamazione sembra una Vespa!” pronunciata da Enrico Piaggio quando per la prima volta vede la forma centrale larga e la vita stretta del prototipo Mp6, prodotto nello stabilimento della Piaggio a Pontedera (Pisa).

II PRIMI ANNI DELLA VESPA: DALLA NASCITA AGLI ANNI ‘60

La Vespa nasce in un periodo storico importante per l’Italia, il dopoguerra. Anni in cui il Paese vuole risvegliarsi e riprendere a vivere, lasciandosi alle spalle gli orrori del secondo conflitto mondiale. L’Italia cresce e si presentano nuove esigenze. Tra queste: la mobilità di chi non può permettersi  l’acquisto di un’automobile.

Da qui l’idea geniale di un mezzo leggero, comodo, veloce e innovativo, anche nelle nuovissime forme di presentazione e pagamento:

1) mezzo di trasporto non solo per professionisti, ma per tutti.

2) La possibilità di acquisto rateizzato.

Cosi che, la Vespa, nata sotto una buonissima stella, coinvolge tutti, in particolare le donne, dal momento che si tratta di un mezzo di trasporto facile da guidare anche con la gonna. E la pubblicità contribuirà al suo successo, al punto che le campagne pubblicitarie diventeranno iconici capolavori.

Negli anni ’50 avviene un profondo cambiamento nell’uso della Vespa, che passa dall’essere principalmente utilizzata per recarsi al lavoro, a diventare un veicolo di svago e divertimento in un’Italia che rifioriva dopo i disagi degli anni precedenti. “Vespizzatevi!”,  diventa quindi lo slogan con cui in quegli anni, si sottolineano i vantaggi che si possono avere come proprietari di una Vespa.

In quegli anni, inoltre, la Vespa diventa per tutti il sinonimo e il simbolo del design e dell’ingegno italiano nel mondo. Un vero  fenomeno mediatico, che diventa anche soggetto di diverse sceneggiature cinematografiche come per esempio nel film, diventato poi un “cult”, “Vacanze romane” del 1953.

La Vespa diventa protagonista nei film, ma anche nella letteratura e naturalmente in campo pubblicitario. E’ la fedele compagna di viaggio della storia dell’Italia. Il successo è ormai internazionale.

Il boom degli anni ’80: la Vespa alla conquista del mondo.

Negli anni ’80 il mito della Vespa ha ormai varcato i confini nazionali tanto che la Piaggio spinge forte sull’acceleratore (è proprio il caso di dirlo) con la diffusione della Vespa, creando una grande rete di servizi in tutta Europa e nel resto del mondo. In questi stessi anni il mitico mezzo di trasporto a due ruote riceve riconoscimenti a livello mondiale, consolidando la sua immagine su tutti i mercati esteri.

Per queste ragioni, la Piaggio decide ancora una volta di puntare molto sulla pubblicità, coinvolgendo nel suo messaggio i giovani che,  in sella alla propria Vespa, possono realizzare qualsiasi sogno. Obiettivo raggiunto: la Vespa diventa sempre più lo scooter dei giovani per spostarsi in città, in campagna, ovunque.

La scalata verso l’Olimpo degli indimenticabili prosegue e la Vespa comincia a contare i vari tentativi di imitazione, che rimangono tali in quanto il due ruote tutto italiano non si può imitare!

GLI ANNI 2000: NASCE LA VESPA ELETTRICA


Nel nuovo millennio la Vespa si evolve. 
Nascono nuovi modelli che conquistano definitivamente i mercati stranieri. Diventa uno scooter “monomarcia”, una scelta che divide gli appassionati. Chi la vede come una sorta di sacrilegio nei confronti di un mito, chi invece ne comprende le scelte e vede in questi modelli la naturale evoluzione di quella Vespa presentata a Roma il 29 marzo del 1946.

Intanto la nuova Vespa elettrica, l’ultima arrivata in casa Piaggio, vince diversi premi tra cui il Compasso d’Oro ADI (Associazione per il Disegno Industriale) che, nel consegnare questo premio, sottolinea i valori, l’attenzione ed il rispetto per l’ambiente dimostrato da  Piaggio nella realizzazione di questo nuovo modello. La verità è che la Vespa continua ad affascinare, mantenendo inalterato quell’inconfondibile design che da sempre la contraddistingue.

LA VESPA E IL CINEMA: UN LEGAME INDISSOLUBILE

Audrey Hepburn e Gregory Peck in “Vacanze Romane” (1953) infatti sono solo i primi di una lunga serie di attrici e attori internazionali che negli anni sono stati ripresi sullo scooter più famoso del mondo, in film che vanno da “Quadrophenia” ad “American Graffiti”, da “Il talento di Mr. Ripley” fino a “La carica dei 102”, per non parlare di “Caro Diario” o dei recenti “Alfie” con Jude Law, “The Interpreter” con Nicole Kidman e il blockbuster “Transformers, The last Knight” del 2016 ”. Nelle foto, nei film e sui set, Vespa è stata “compagna di viaggio” di nomi quali Raquel Welch, Ursula Andress, Geraldine Chaplin, Joan Collins, Jayne Mansfield, Virna Lisi, Milla Jovovich, Marcello Mastroianni, Charlton Heston, John Wayne, Henry Fonda, Gary Cooper, Anthony Perkins, Jean-Paul Belmondo, Nanni Moretti, Sting, Antonio Banderas, Matt Damon, Gérard Depardieu, Jude Law, Eddie Murphy, Owen Wilson e Nicole Kidman.

In settantasette anni di storia (Piaggio ne depositò il brevetto il 23 Aprile 1946) e con 19 milioni di esemplari diffusi sulle strade dei cinque continenti, Vespa ha dato una nuova marcia al mondo intero diffondendosi sulle strade di tutte le nazioni, unendo in un’unica passione giovani di culture lontane e diverse. Una vera leggenda del Grande Made in Italy!

Il rapporto tra la Vespa e il cinema è un matrimonio straordinario: incredibilmente felice e intenso, indissolubile nei decenni, capace di rinnovarsi continuamente e di creare emozioni ad ogni latitudine…La Vespa è oggi il simbolo della creatività italiana nel mondo e un esempio unico di ‘immortalità’ nella storia del design industriale. Vespa non appartiene più soltanto al mondo della mobilità: è la storia di un fenomeno-simbolo del costume globale. Oggi come ieri, andare in Vespa è sinonimo di libertà e status sociale, di dinamismo e di passione per la bellezza. E’ un’esperienza di vita e di immaginazione, carica di simboli individuali e collettivi nati in gran parte negli anni della Dolce Vita: Audrey Hepburn e Gregory Peck in Vacanze Romane sono stati i primi protagonisti di un connubio magico, che si è poi ripetuto con straordinaria frequenza in centinaia di pellicole cinematografiche e di campagne di advertising. La creatività di attori e attrici, di registi e di pubblicitari alimenta la forza del mito e arricchisce quotidianamente l’immaginario di Vespa di nuovi valori, in ogni angolo del mondo”.

Vespa non è solo un fenomeno industriale e commerciale che dura da 70 anni. Sin dalla sua apparizione, nel 1946, ha influenzato la storia del costume e della cultura. Negli anni della “Dolce Vita” Vespa diventa sinonimo di scooter e i reportage dei corrispondenti stranieri descrivevano l’Italia come “il Paese delle Vespa”. Il ruolo giocato dall’iconico scooter nel costume non solo italiano è documentato dalla presenza di Vespa in centinaia di film internazionali. Ed è una storia che continua anche oggi.

E ancora, Vespa compare in celebri pellicole firmate dai maestri italiani del cinema, come Dino Risi, Federico Fellini, Mario Monicelli, da “Caro Diario” di Nanni Moretti a “Romanzo Criminale” di Michele Placido e a “Nuovo Cinema Paradiso” (premiato con Oscar e Golden Globe) di Giuseppe Tornatore.


MUSEO PIAGGIO

E per non dimenticare la storia di una delle industrie più importanti del nostro Paese e di uno dei tanti prodotti dell’eccellenza italiana, a Pontedera il 29 marzo del 2000 e’ stato inaugurato il Museo Piaggio, ubicato nell’ex attrezzerie del complesso industriale, su progetto di Andrea Bruno, che ha recuperato l’attrezzeria, la zona più antica della fabbrica costruita negli anni venti. Nel 2018 è stato completamente ristrutturato.

A volere fortemente il museo fu Giovanni Alberto Agnelli (meglio conosciuto come Giovannino Agnelli),  allora presidente della Piaggio, che però morì tre anni prima dell’inaugurazione e a cui fu quindi dedicato. Il Museo è nato per conservare e valorizzare il patrimonio storico di una delle più antiche imprese italiane e si pone l’obiettivo di ricostruire le vicende di Piaggio e del suo Territorio ripercorrendo un lungo tratto di storia italiana, fatto di trasformazioni economiche, di costume e di sviluppo industriale, attraverso l’esposizione dei suoi prodotti più famosi e rappresentativi e grazie alla ricchissima documentazione conservata nell’Archivio Storico.
Accanto allo spazio dedicato alle collezioni esposte permanentemente, il Museo Piaggio dedica 340 m² a esposizioni temporanee che permettono alla struttura di variare continuamente l’offerta culturale spaziando dal campo dell’arte a quello della tecnologia, dalla divulgazione scientifica alla moda. Negli anni questi spazi hanno ospitato mostre, eventi e opere di artisti straordinari quali Dalì, Picasso e, tra gli italiani, Burri, Nomellini, Viani, Pellizza da Volpedo, Fattori, Modigliani, Carrà, Signorini, Soffici, Spreafico, Nespolo e altri protagonisti dell’arte moderna e contemporanea.Nel 2003 il Museo Piaggio e l’Archivio Storico sono stati premiati come Miglior Museo e miglior Archivio d’Impresa in Italia, nell’edizione del Premio Impresa e Cultura 2003.

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23 Marzo 2023 – Redazione – Marzia MC Chiocchi

 

In vista del Consiglio europeo, calendarizzato il 23 e il 24 marzo, martedi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha riferito le priorità italiane al Senato e ieri lo ha fatto alla Camera.

Il prossimo vertice a Bruxelles, per la premier, è il momento in cui, in teoria, andrebbe fatto un salto di qualità sui temi dell’immigrazione e del Patto di stabilità. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in una lettera indirizzata ai 27 Paesi membri, ma soprattutto all’Italia, ha annunciato «un nuovo sostegno pari a 200 milioni di euro che sarà focalizzato sull’assistenza all’accoglienza» e l’«accelerazione dell’attuazione del meccanismo volontario di solidarietà per i ricollocamenti dei migranti». E l’Italia prende un altro schiaffo, non volendo agire con il pugno di ferro sul blocco delle partenze dal Nordafrica. È inutile ricevere aiuti! Servono solo a creare associazioni e realtà che speculano sugli immigrati, e sacche di nuovi abbandonati a se stessi, pronti a creare problemi! MA ORMAI ABBIAMO CAPITO CHE L’UE VUOLE QUESTO, E L’ITALIA NE È COMPLICE! Ma dov’è il blocco navale di cui parlava Giorgia Meloni non in veste di Premier, ma da segretario di partito?


ANALIZZIAMO DA DOVE TUTTO È PARTITO ⤵️

Cos’è e quando è stato firmato il trattato di Dublino?

«È il regolamento dell’Unione Europea che stabilisce criteri e meccanismi per l’esame, e l’eventuale approvazione, di una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un Paese terzo. Nasce dalle ceneri della Convenzione firmata nella capitale irlandese il 15 giugno 1990, ovvero dal primo trattato internazionale multilaterale firmato dagli allora dodici membri della Comunità europea per darsi regole comuni sull’asilo. In vigore nel 1997, è stato sostituito nel 2003 dal regolamento «Dublino II» che l’ha portato nell’ambito delle competenze dell’Ue. Una terza revisione – «Dublino III» – è stata varata nel giugno 2013».

Cosa stabilisce per quanto riguarda i richiedenti asilo?

«Il principio chiave è dettato dall’articolo 13. «Quando è accertato (…) che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale». In altre parole, la responsabilità dell’asilo è del Paese di primo sbarco. Ovvero: chi arriva in Italia tocca all’Italia, chi in Spagna alla Spagna e via…»

Quali le situazioni che hanno portato alla sigla del trattato?

«Nel preparare i trattati istitutivi della Cee, poi firmati a Roma nel 1957, gli Stati fondatori hanno deciso di tenere per sé una serie di politiche anche rilevanti, fra cui l’Immigrazione. Non una cosa da poco, se si pensa che solo nei primi quindici anni del secondo dopoguerra il Belgio accolse circa 200 mila italiani. Quando si arriva alla vigila del mercato unico, si pone l’esigenza di regolare l’asilo. Si tratta di evitare il turismo delle richieste, dunque stabilire che ogni straniero possa chiedere il permesso in un solo Paese. In caso di rifiuto, deve avere una seconda opportunità. È allora che si stabilisce il principio del primo approdo».

Fu una decisione difficile? E quali Paesi spinsero di più per arrivare all’intesa?

«Fu una decisione necessaria. Venticinque anni fa furono soprattutto i tedeschi, freschi di riunificazione ed esposti agli effetti della caduta della Cortina di Ferro, a spingere per regole precise. Oltretutto, dal gennaio 1993, nella Comunità europea s’iniziava la libera circolazione dei cittadini. La repubblica federale era già meta richiestissima, anche se la domanda allora era tutta dall’Est. Per l’Italia, la Convenzione fu un campanello d’allarme. La migrazione era prevalentemente albanese e controllabile. Per il resto si lasciava spesso correre, prassi alla quale «Dublino» costrinse a mettere in parte fine.

Cos’è cambiato in questi anni da mettere in discussione il trattato?

«Il contesto mediterraneo, africano e mediorientale. In anni recenti la guerra in Siria, le dittature in Eritrea e nella parte centrale del continente nero, l’instabilità afghana e pachistana, le primavere arabe tradite, hanno gonfiato il flusso dei migranti che, sino a giorni non lontani, erano in prevalenze gente a caccia di un lavoro. La caduta del regime di Gheddafi ha aperto la porta libica. I popoli in fuga hanno cominciato ad arrivare in Italia e Grecia. Più recentemente, soprattutto per l’offensiva dell’Isis in Siria, si è affollata la via balcanica. Il dato è che milioni di persone fanno la fila per cercare la pace nell’Unione».

Cos’è che non funziona? Perché è considerato uno strumento superato?

«Anzitutto viene contestato l’obbligo del Paese di primo approdo di gestire tutti gli accessi e accogliere chi arriva, sia l’Italia, la Grecia o l’Ungheria, alfieri europei più esposti agli sbarchi e desiderosi di maggiore solidarietà. In seconda battuta, lo stesso precetto impedisce di diritto la possibilità di arrivare a un meccanismo di emergenza che conduca alla redistribuzione obbligatoria di parte dei rifugiati nei momenti di maggiore crisi, ipotesi suggerita da Francia e Germania. Berlino continua a ripetere che «Dublino» è in vigore e la ripartizione obbligatoria verrebbe a valle della sua applicazione. L’Italia ne chiede la revisione: un trattato vecchio, si fa notare, per un mondo cambiato».

Ma chi ha firmato nel 2013 il nuovo Trattato di Dublino, denominato III, alla scadenza naturale dei 10 anni dal precedente?

Pochi documenti hanno influenzato le sorti attuali dell’Italia di quanto non abbia fatto il trattato di Dublino, di cui però l’italiano medio ha sentito parlare solo molto tardi, quando ormai la ratifica era lontana nel tempo e le responsabilità fumose e difficili da assegnare. Quello che si sa di sicuro è che attualmente è in vigore il Dublino III, firmato dal governo di Enrico Letta (ministro degli interni Angelino Alfano, ministro degli esteri Emma Bonino), che ribadisce il principio di responsabilità permanente del paese di primo approdo dei migranti, definendolo «una pietra miliare». Di suo, vi aggiunge il criterio della tutela dei minori e del ricongiungimento familiare per stabilire la competenza dei paesi a concedere il diritto d’asilo (competenza ad accogliere persone con le carte in regola, già identificate e vagliate dai paesi di primo approdo).

Ma il difficile è risalire alla responsabilità iniziale per la «pietra miliare» che rende il paese di primo approdo la discarica dell’Unione europea (adesso praticamente solo l’Italia, da quando la Grecia può spedire gli irregolari in Turchia, pagata miliardi dall’Ue per tenerseli. La Spagna comincia ad avere dei flussi in più da quando Minniti ha fatto l’accordo con i libici: circa 8 mila quest’anno, il doppio dei loro arrivi nel 2016, ma sempre un’inezia rispetto agli sbarchi in Italia).

Il trattato di Dublino III è stato siglato nel 2013 perché quello precedente aveva una scadenza: dieci anni.

Il Dublino II era stato infatti firmato nel 2003 dal governo Berlusconi (ministro degli interni Giuseppe Pisanu, ministro degli esteri Gianfranco Fini), e si basava a sua volta sul precedente documento, che si chiamava non Trattato ma Convenzione di Dublino. A questo il trattato firmato dal governo di centrodestra aveva aggiunto l’obbligo di prendere le impronte digitali. Adesso sembra un’ovvietà ma allora erano forti le polemiche dei garantisti per i quali è una discriminazione prendere le impronte ai soli extracomunitari. Esse però sono servite a creare per la prima volta una banca dati ottenendo così l’emersione di identità e pratiche multiple.

Ma il principio che lega per sempre il migrante al paese di primo approdo non nasce neppure nel 2003, risale al 1° settembre 1997, quando andò in vigore l’originaria Convenzione di Dublino. Quell’anno in Italia era giunta un’ondata di migranti albanesi (scatenata dallo scandalo finanziario delle «piramidi») che per la prima volta non fu respinta dal governo dell’epoca, il Romano Prodi I (ministro degli interni Giorgio Napolitano, ministro degli esteri Lamberto Dini), ma lasciata sostanzialmente sulle spalle delle Caritas e delle parrocchie, prevalentemente pugliesi.

Dunque la Convenzione che andò in vigore nel 1997 era stata originariamente firmata nel lontano 1990, quando era al potere l’ultimo governo di Giulio Andreotti, l’Andreotti VI (ministro degli esteri Gianni De Michelis, Psi, ministro dell’interno Vincenzo Scotti, Dc). Come fa notare Claudio Borghi Aquilani sul suo account Twitter, all’epoca non solo non c’erano barconi di migliaia di uomini lanciati quotidianamente verso le coste dell’Italia, ma non esisteva neppure il concetto dell’entrata libera in un paese senza passare dall’ufficio passaporti e dal visto del paese ricevente.

Quella prima convenzione firmata a Dublino stabiliva una serie di criteri di assegnazione ai vari paesi dei richiedenti asilo in possesso di documenti, poi diceva cosa fare nei confronti degli irregolari: «Art.6. Se il richiedente l’asilo ha varcato irregolarmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda di asilo è di competenza di quest’ultimo Stato membro». All’epoca era una norma di semplice buon senso, c’erano ancora le frontiere anche all’interno dell’Europa, figuriamoci se si poteva entrare tranquillamente dall’esterno, tant’è vero che proprio quel governo lì fece fronte l’anno dopo al primo monumentale sbarco degli albanesi in Puglia. Era l’agosto 1991 e il Viminale dispose un ponte aereo che in una sola notte riportò in Albania 17.467 persone arrivate in Puglia sei giorni prima, con l’impiego di 3 mila uomini e l’intera 46esima aerobrigata, in tandem con l’Alitalia.

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14 Marzo 2023 – Redazione – di Claudio Pira (sito: eventidimenticati.it)

 

Quando gli Stati Uniti entrarono a far parte delle coalizioni coinvolte nella seconda Guerra Mondiale, precisamente il 7 dicembre del 1941, tra i molti provvedimenti che il governo di Roosevelt prese in quel momento ce ne fu uno molto particolare, che si ricollega al titolo dell’articolo: donare bottigliette di Coca-Cola al suo esercito. Ma perché? E quale risultato ebbe tale “politica bellica”?

Gli stratagemmi americani in guerra

Come già anticipato, il governo statunitense all’epoca presieduto dallo storico presidente Franklin Delano Roosevelt ebbe un’idea alquanto particolare per sostenere le truppe in Europa e tenere loro alto il morale. Il gabinetto di governo iniziò a pensare ad una serie di stratagemmi per migliorare morale e integrità del proprio esercito in un continente lontano, facendo loro capire l’importanza del conflitto e allo stesso tempo dimostrando loro che il proprio governo continuava a sostenerli a distanza, anche e soprattutto con dei piccoli gesti. Fu così che venne presto proposta l’idea di considerare lo zucchero come materiale effettivamente utile ad uno sforzo bellico molto grande come quello che appunto avrebbero dovuto affrontare ben presto i soldati nel continente europeo. Razionare lo zucchero per l’uso civile era l’unica soluzione per far sì che gran parte della sua produzione venisse poi distribuita anche ai soldati in guerra. Questo espediente in realtà era già stato utilizzato durante la prima guerra mondiale, ma in minima parte.

Tuttavia non fu facile per il governo e le aziende nazionali fornire un quantitativo così grande di zucchero lavorato, facilmente conservabile e allo stesso tempo invitante da assumere. Fu così che si pensò di coinvolgere le due più grandi aziende americane che lavoravano e utilizzavano lo zucchero per la creazione di bevande alimentari molto diffuse tra la popolazione e ben accette da tutti: stiamo parlando di Coca-Cola e Pepsi Cola, nate rispettivamente ad Atlanta nel 1892 e in Nord Carolina nel 1893.

Queste due aziende, seppur grandi e ben diffuse su tutto il territorio americano, necessitavano continuamente di dolcificante per preparare le proprie bevande da distribuire, ora non soltanto più sul mercato nazionale ma anche a tutti i soldati coinvolti nel conflitto in Europa. Fu così che ben presto, prima della messa a punto del piano di governo per i soldati, entrambe ebbero molta difficoltà a produrre quantitativi ottimali per il rifornimento delle truppe. Per ovviare al problema, fu proprio l’industria della Coca-Cola che in primis riuscì a convincere l’amministrazione degli Stati Uniti dell’importanza del piano di rifornimento dello zucchero, al fine anche dell’aumento delle prestazioni sportive/belliche, oltre che per il morale delle truppe al fronte. Roosevelt doveva fare qualcosa per mettere in atto il piano che il suo governo aveva varato: le industrie avevano dato la loro disponibilità a collaborare, ma per realizzarlo doveva sostenerle maggiormente, fornendo loro più materie prime.

Il progetto dunque non si spense e, dopo una serie di problematiche iniziali la Coca-Cola per prima concluse con il governo un contratto di fornitura delle proprie bibite per tutte le forze armate americane coinvolte nel conflitto mondiale, il quale gli permise di poter usufruire illimitatamente di tutto lo zucchero necessario per la produzione anche di quelle messe normalmente in vendita negli scaffali dei supermercati, senza che nessuno ci facesse realmente caso. Inoltre, alcuni impiegati della Coca-Cola tra i più preparati, furono anche inviati nel vecchio continente sotto forma di “ufficiali tecnici” contribuendo all’installazione di numerosi impianti di imbottigliamento in diverse località d’oltremare.

La strategia della grande multinazionale era chiara: non soltanto sfruttare i benefici statali per vendere sempre più bottiglie, ma anche porre le basi di una sua futura espansione soprattutto dopo il conflitto armato, facendo sì di sbaragliare un eventuale concorrenza futura. Tutti avrebbero avuto a che fare con il marchio “Coca-Cola”, a partire dai soldati, fino ai civili nel periodo della ricostruzione!

La reazione sulle truppe

Ben presto, in migliaia di lettere inviate a casa dai militari in guerra espressero un enorme stupore e soddisfazione per la distribuzione ad un prezzo praticamente regalato di Coca-Cola (c’è chi ci parla di pochi franchi e chi dice di averla ricevuta gratis con il proprio pasto), segno che il piano stava dando i suoi frutti sul morale.

Ecco, ad esempio, una lettera proveniente dalla collezione d’archivio del Museo Nazionale della Seconda Guerra Mondiale che mette bene in luce l’effetto della bevanda zuccherata sul morale di un anonimo militare ⤵️
“Dear Folks, You’ll never guess what I had to drink this evening. Not whiskey, not gin, not Calvados, not beer, but good old fashioned “Coca-Cola” in the bottle that’s made to fit the hand. Just a few moments before we left our staging area to board the boat Dick and I bought two Cokes, and drank them to the next time we’d be drinking bottled Cokes, believing that that would be in the USA. But not so! As part of our PX ration this week each man received two Cokes for which he paid four francs, and although some people may debate whether rye or bourbon are America’s national drinks, when I saw the excitement caused by a case of Cokes and the remarks about the corner drugstore, I did not think the national drink was quite that strong!”

(Cari ragazzi, non indovinerete mai cosa ho dovuto bere questa sera. Non whisky, non gin, non Calvados, non birra, ma la buona “Coca-Cola” vecchio stile nella bottiglia che è fatta per adattarsi alla tua mano. Pochi istanti prima di lasciare la nostra area di sosta per imbarcarci, Dick ed io abbiamo comprato due Coca-Cola, e le abbiamo bevute fino alla prossima volta che avremmo bevuto Coca-Cola in bottiglia, credendo che sarebbe stato negli USA. Ma non è così! Come parte della nostra razione PX questa settimana ogni uomo ha ricevuto due Cokes per le quali ha pagato quattro franchi, e anche se alcune persone possono discutere se il rye o il bourbon siano le bevande nazionali dell’America, quando ho visto l’eccitazione causata da una cassa di Cokes e le osservazioni sul drugstore all’angolo, non pensavo che la bevanda nazionale fosse così forte!”

Dalla distribuzione alle pubblicità “soft”

In effetti, le pubblicità della Coca-Cola durante la guerra affrontavano i temi più delicati del conflitto. Piuttosto che mostrare soldati stanchi a causa della guerra che si godono la loro bottiglia, la compagnia si concentrò sulla capacità della Coca-Cola di unire persone e nazioni, come si vede nelle pubblicità che ritraggono i soldati che si mescolano e ridono con inglesi, polacchi, sovietici e altri alleati (dall’Alaska e dalle Hawaii al Brasile e alla Cina), sempre con una didascalia del tipo: “Have a ‘Coke’ – un modo per dire che siamo con voi”. La Coca-Cola Company approfittò anche del suo consolidato slogan “La pausa che rinfresca” applicandolo ai lavoratori del fronte interno, spesso donne, incoraggiate a prendersi una pausa dalla costruzione di aerei e navi con la famosa bevanda zuccherata. L’idea dietro le pubblicità, supportata da un progetto di ricerca scientifica completato nel 1941 dai dirigenti della Coca-Cola, era che i lavoratori del fronte interno e i soldati avrebbero lavorato in modo più efficiente se avessero avuto un momento di pausa per rinfrescarsi con una Coca-Cola. Una pubblicità dell’epoca infatti recita: “Gli uomini lavorano meglio rinfrescati… Una nazione in guerra attua uno sforzo produttivo con un nuovo ritmo… In tempi come questi la Coca-Cola sta facendo un lavoro necessario per tutti i lavoratori”.

Mentre la Coca-Cola Company era impegnata a risollevare il morale delle forze combattenti americane, stavano contemporaneamente gettando le basi per diventare un simbolo internazionale di ristoro e solidarietà. Molti degli impianti di imbottigliamento stabiliti all’estero durante la guerra hanno continuato a funzionare come fabbriche dopo la sua fine. Inoltre, i militari che piano piano liberavano le città di tutta Europa o lavoravano fianco a fianco con la gente del posto si sono sentiti orgogliosi di condividere la loro bevanda preferita con i loro nuovi amici, creando così un’enorme base di consumatori in tutto il mondo che non sarebbe stata possibile senza la cooperazione dello stesso generale Eisenhower in Europa e della stessa Coca-Cola Company nel lavorare per migliorare il morale del combattente americano.

Con una mossa brillante e allo stesso tempo lungimirante, quella che oggi può essere giustamente considerata come una delle più grandi multinazionali al mondo riuscirà ad imporsi come industria leader nel secondo dopoguerra. Si calcola che durante la seconda Guerra Mondiale furono consumate dai soldati americani circa 10 miliardi di bottigliette di Coca-Cola, alcune delle quali possono ancora essere ritrovate in diversi siti bellici dedicati alla Seconda Guerra Mondiale. Una cosa però è certa: grazie a questa brillante mossa di marketing, tutti dopo il 1945 avrebbero conosciuto ed apprezzato il marchio Coca-Cola nel mondo!

Fonti:

http://www.nww2m.com/2011/08/coca-cola-the-pause-that-refreshed-2/

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12 Marzo 2023 – Redazione – Fonte: Sito Corvelva

Nel 2014 in Kenya alcuni medici e 27 vescovi denunciarono il governo, l’OMS e l’UNICEF per aver somministrato a oltre un milione di donne un vaccino contro il tetano contenente un antigene che produce anticorpi abortivi.

In un momento in cui tutti i riflettori sono puntati sul vaccino contro il Covid-19 e i media mainstream si accollano l’onere di evidenziare tutta la misericordiosa filantropia di personaggi come Bill Gates e la ricerca dei vaccini che salverà l’umanità dall’estinzione; in un momento in cui il dr. Tedros Ghebreyesus, direttore dell’OMS, è impegnato nel raccogliere fondi da varie Nazioni per poterli mettere a disposizione dell’industria farmaceutica, twittando ringraziamenti ai capi di Stato che aderiscono a questa sorta di grande evento filantropico mondiale; noi vogliamo ripescare invece qualche scheletro nell’armadio che, fatalmente, coinvolge gli stessi attori in campo.

In particolare la mente torna a ciò che accadde nel 2014 in Kenya, quando alcuni medici e 27 vescovi denunciarono il Governo, l’OMS e l’UNICEF per aver somministrato a un milione di donne un vaccino contro il tetano contenente un antigene che produce anticorpi abortivi. Queste donne (tra cui molte ragazze) ricevettero a loro insaputa un vaccino sperimentale che si scoprì essere in grado di sterilizzare la popolazione femminile. Ma andiamo con ordine e cerchiamo di ricostruire i fatti, tenendo bene a mente i nomi e le istituzioni coinvolte.
Perché indagarono? Cosa non quadrava? Anzitutto le modalità di gestione dei vaccini e delle loro somministrazioni: le fiale arrivavano scortate dalla polizia, venivano somministrate da operatori anch’essi scortati, anzichè dall’usuale personale medico ospedaliero; in più, le dosi previste erano ben 5 in 6 mesi, a fronte delle solite 3 dilazionate negli anni e, soprattutto, le destinatarie della campagna straordinaria erano solo donne e solo in età fertile (14-49 anni).

A lanciare l’allarme in aprile era stata l’Associazione dei medici cattolici e la Conferenza episcopale del Paese che, insospettita dalla prassi e della mancanza di un’emergenza tetano, aveva fatto analizzare 6 campioni di vaccini in laboratorio, scoprendo così che questi vaccini erano prodotti unendo al tossoide tetanico anche l’ormone Beta-Hcg, ormone necessario per la gravidanza. In questo modo l’organismo avrebbe attivato una risposta anticorpale contro lo stesso ormone, impedendo futuri concepimenti. Riuscirono ad inviare diversi campioni del vaccino in diversi laboratori e a trovare così conferma ai loro sospetti.
Un comunicato dell’Associazione dei medici cattolici del Kenya ha reso noto infatti che i risultati confermarono la loro peggiore paura:

“La campagna dell’OMS non mira a sradicare il tetano neonatale ma è un ben coordinato ed efficace tentativo di sterilizzazione di massa per il controllo della popolazione”

Va notato che l’UNICEF e l’OMS distribuiscono vaccini gratuitamente in diversi Paesi in via di sviluppo e che sono previsti anche incentivi finanziari per i governi a partecipare a questi programmi.

Quando i fondi delle Nazioni Unite non sono sufficienti per acquistare le quote annuali di vaccini, un’organizzazione avviata e finanziata dalla Bill and Melinda Gates Foundation, il GAVI, fornisce finanziamenti extra per molti di questi programmi di vaccinazione nei “paesi poveri”.

Corvelva si è sempre chiesta: i grandi benefattori che oggi si sono spesi per propinarci un farmaco sperimentale contro quella che a sentir loro sembra essere stata l’epidemia del millennio, sono gli stessi che solo pochi anni fa perpetravano questi crimini contro l’umanità?
Cosa ci riportano alla mente questi fatti? Un interessante parallelo è forse possibile con quanto accaduto in Italia, a seguito delle analisi che Corvelva ha eseguito su diverse fiale e lotti vaccinali: il comune denominatore è il prodotto, il vaccino, che non si vuole e quindi non si deve mai mettere in discussione. Le analogie aumentano quando leggiamo un comunicato dei medici kenioti, che denunciano i tentativi di intimidazione subìti, con minacce di azioni disciplinari ai medici stessi. Molto familiare, se pensiamo all’atteggiamento inquisitorio degli ultimi anni contro coloro che si sono permessi in Italia di esprimere dubbi rispetto alla pratica vaccinale massificata.
Lì però la storia ha avuto un epilogo diverso, in quanto il Governo si è visto costretto a mettere fine alla sperimentazione in atto. D’altro canto i medici stessi sembrano meno propensi a pendere dalle labbra delle case farmaceutiche e delle organizzazioni internazionali di quanto non avvenga qui.
Suona strano per un occidentale pensare che in Africa vi siano medici e cittadini che non si fidano ciecamente dell’OMS e delle organizzazioni “umanitarie” (ONG), perché noi siamo abituati ad una narrazione che prevede che istituzioni come l’OMS siano salvifiche, che la popolazione, soprattutto nei Paesi più poveri, preghi per ottenere più vaccini e più aiuti. Siamo stati abituati ad immaginare una popolazione che non aspetta altro che essere inondata di programmi vaccinali, anche sperimentali, perché questa per loro sarebbe l’unica salvezza. Questo è ciò di cui tentano di convincerci. E invece ecco le parole di Stephen Karanja, presidente dell’Associazione dei medici cattolici del Kenya:

“La Chiesa africana è consapevole che non ci si può fidare dell’OMS… La campagna cominciata qui è identica a quella che fu portata avanti nelle Filippine, in Messico e in Nicaragua, sponsorizzata dagli stessi enti.”

Ricordiamo infatti che le medesime dinamiche si erano già presentate in questi Paesi negli anni ‘90.

Quindi, sembrerebbe che, chi ci viene da sempre presentato come più bisognoso di aiuto, sia anche avvezzo a diffidare dei cosiddetti benefattori e questo per un motivo molto semplice e chiaro: queste istituzioni sarebbero state protagoniste nella storia recente di nefandezze di cui però il resto del mondo viene difficilmente a conoscenza. Allora, visto che oggi stanno tutti finanziando questi stessi personaggi, aspettandosi il loro aiuto, è doveroso approfondire un po’ di più.

Per chi volesse, alleghiamo all’articolo che trovate sul sito un’intervista ufficiale del settembre 2017 di Raila Odinga (https://youtu.be/qrSnNwoVS-g), primo ministro del Kenya dal 2008 al 2013, che spiega l’accaduto e conferma la veridicità delle accuse: ascoltatelo, le sue dichiarazioni sono piuttosto pesanti.

In conclusione siamo a ribadire che l’aumento della sfiducia verso le istituzioni nazionali ed internazionali, verso le ONG filantropiche e verso alcune politiche sanitarie, è il risultato di un sistema che per anni ha elaborato e sponsorizzato programmi anche in contrasto con le libertà personali. In questo preciso periodo storico in cui la politica è indebolita, l’idea che la stessa oligarchia scientocratica, o peggio filantropia dittatoriale, riesca a dettare le politiche sanitarie mondiali, ci spaventa non poco.

CLICCATE SUL LINK PER SEGUIRE IL VIDEO SUL TEMA, PROVVISTO DI TRADUZIONE SOTTOTITOLATA ⤵️

https://rumble.com/v1a0ea2-infertility-a-diabolical-agenda.html

Fonti:

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