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25 Marzo 2023 – Redazione

 

La Sardegna è nota per la sua ricchissima macchia mediterranea che presenta numerose piante aromatiche e piante officinali. Molto prospera è l’area della Gallura nella quale è possibile praticare un vero e proprio esercizio dei sensi: provate a chiudere gli occhi e a percepire tutte le essenze olfattive in una vegetazione boschiva a ridosso del mare; o meglio ancora, fatevi condurre da una guida esperta la quale vi sottoporrà bendati una serie di essenze che dovrete riconoscere, e che di conseguenza apprenderete. Profumi inconfondibili e colori che variano a seconda della stagione, vediamo quali sono le più famose erbe aromatiche e piante officinali della Gallura. Intanto specifichiamo che le erbe officinali sono un insieme di piante differenti trasformate dall’uomo tramite lavorazioni con lo scopo di poterne godere delle singole proprietà benefiche. Ogni pianta officinale ha quindi le proprie caratteristiche, nasce e cresce in un determinato habitat, ha i suoi tempi di raccolta ed appunto anche i suoi utilizzi. La Sardegna, e quindi anche la Gallura, è popolata dalla macchia mediterranea, ovvero quell’ecosistema tipico del bacino del Mar Mediterraneo, vegetazione influenzata dal mare e dal clima con estati secche e torride ed inverni miti. Si stima che le specie vegetali autoctone siano circa 2700 posizionando la Sardegna al secondo posto in questa speciale classifica tra le regioni italiane. Alcuni tra questi endemismi, fenomeno per cui alcune specie vegetali sono esclusive di un determinato territorio, sono condivisi ad altre isole del Mediterraneo come la Corsica, la Sicilia e le Baleari.

L’utilità della macchia mediterranea è quella di svolgere una difesa dall’erosione del suolo contribuendo a preservare gli ambienti costieri e quindi il paesaggio.

Fatta questa doverosa premessa, andiamo a vedere assieme le più famose erbe e piante officinali della Gallura.

Piante Officinali in Gallura: le Eccellenze

Se venite in Gallura vi imbattete subito nei forti e caratteristici aromi della macchia mediterranea: è comune infatti sentirsi dire che la Gallura abbia dei profumi inconfondibili e riconoscibili, che si individuano sia come si apre il portellone dell’aereo in Olbia, sia con l’approccio via nave dentro il Golfo di Olbia. E queste bellissime sensazioni diventano più forti con l’inoltrarsi nel paesaggio gallurese, magari della Costa Smeralda, con le spiagge precedute da stupende distese di vegetazione che si avvicinano alla sabbia degli arenili. Arrivare al mare è un preludio meraviglioso grazie alla presenza di ginepri, lavande, lentischi e ginestre ed in primavera ed inizio estate prevale il colore giallo ed il verde intenso, che va a schiarire con l’arrivo dei mesi più caldi. Ma abbiamo anche il bianco e il rosa dei cisti e delle eriche, il rosso dell’euforbia e l’azzurro del rosmarino. Ma le piante ed erbe officinali in Gallura, oltre ad avere la loro utilità all’interno della macchia mediterranea preservandone le coste ed i paesaggi, ed oltre ad essere una parte integrante nella bellezza dell’ecosistema, svolgono anche un ruolo di protagonista nella cultura popolare e sono utilizzate per scopi curativi e anche per realizzare manufatti. Le piante officinali che troviamo in Gallura sono in ordine alfabetico: alloro, cappero, caprifoglio mediterraneo, cisto, erica, euforbia, ginepro, ginestra, lentisco, mirto, oleandro, olivastro, rosmarino, palma nana e pungitopo. Mentre l’erboristeria officinale più famosa in Sardegna si trova proprio in Gallura, precisamente a Luogosanto, nella Strada Provinciale 14 Arzachena Luogosanto Balaiana, e si chiama Erboristeria Officinale Sub Moloc Sardegna: lo slogan dell’erboristeria è “l’erboristeria come atto agricolo, coltiviamo, raccogliamo, traformiamo piante officinali dal 1980”. E dopo questa panoramica, siamo pronti ad addentrarci nel conoscere le erbe officinali più famose della Gallura.

Elicriso

Caratteristico della macchia mediterranea, è abbondante nelle zone aride in prossimità del mare, e nei luoghi rocciosi e pietrosi. In Gallura fiorisce in aprile-maggio e si presenta con base lignificata e di altezza intorno ai 30-50 cm con fiori profumati di colore giallo oro molto aromatici. Già apprezzata in epoca romanica e nel Medioevo in quanto pianta aromatica, i diversi preparati di elicriso possono trovare impiego nelle malattie respiratorie, reumatiche e per curare le ustioni. Le foglie in cucina si utilizzano per aromatizzare i cibi e a scopo ornamentale.

Finocchietto selvatico

Il finocchietto selvatico è un arbusto erbaceo spontaneo della macchia mediterranea, appartenente alla famiglia delle ombrellifere, è rinomato per le sue proprietà aromatiche e per questo molto utilizzato in cucina. La pianta si compone di un fusto ramificato che può arrivare anche a 2 metri, foglie filiformi verdi e fiori gialli disposti a ombrello. Si adatta a terreni aridi esposti al sole e riparati dal vento, mentre non sopravvive in caso di gelate. Si utilizza in cucina per aromatizzare ragù e formaggi e dalle foglie macerate nell’alcool puro si può ricavare un buonissimo liquore. Le proprietà fitoterapiche del finocchietto sono digestive, antisettiche e antispasmodiche.

Mirto

Il mirto è probabilmente la pianta più famosa simbolo della Sardegna per via del rinomato liquore che si ricava. Ed il mirto cresce in grande abbondanza in tutta la Sardegna ed in tutta la Gallura. I cespugli di mirto hanno foglie profumatissime e bacche violacee o nero-bluastre ed il suo arbusto può raggiungere anche 3-5 metri di altezza. Durante il periodo estivo la pianta produce fiori bianchi con 5 petali dai quali si produce anche un miele che ha proprietà antibatteriche. Sin dal Medioevo il mirto è stato usato per scopi ornamentali, culinari e terapeutici; il suo olio essenziale ha proprietà antisettiche e balsamiche, infatti in fitoterapia la pianta è usata come sedativo in caso di bronchite. Grazie alla sua azione tonica è utilizzato anche come ingrediente di creme cosmetiche.

Timo

Il timo è una pianta mediterranea che nasce spontaneamente con fusto legnoso di 10-30 cm di altezza e ramificazioni con foglie verde-grigio e che fiorisce nei mesi primaverili e in prima estate. I fiori e le foglie del timo contengono un principio attivo con proprietà digestive, lassative, antisettiche e antinfiammatorie. In cucina accompagna minestre, carni, sughi e salse, e specialmente con le patate al forno. All’olio essenziale del timo vengono attribuite proprietà antibatteriche che sono un perfetto alleato per dermatiti e disinfettare punture di insetto. In Gallura si trova principalmente nel monte Limbara.

Alloro

L’alloro è una pianta spontanea che si trova nelle campagne galluresi e sarde, ed è un albero sempreverde con foglie ovali e lucide. Le sue bacche e le sue foglie in particolare si possono raccogliere tutto l’anno ma risultano ricche di proprietà benefiche in particolare se raccolte in inverno ed all’inizio della primavera. L’alloro viene utilizzato prevalentemente in cucina, è ricco di proprietà antisettiche, antiossidanti, antidigestive e antitumorali; le sue foglie sono anche fonte di vitamina C, quindi è un efficace antiossidante che contrasta l’azione dei radicali liberi. Utilizzate fresche, le foglie di alloro hanno un elevato contenuto di acido folico, fondamentale nel periodo di gravidanza, e sono una fonte anche di vitamina A, indispensabile per la salute della vista e della pelle. L’alloro può essere utilizzato come infuso di foglie, per contrastare bronchiti e influenze, infuso di bacche, per disturbi circolatori, decotto di bacche, per contrastare i sudori estivi, ed in cucina accompagna piatti a base di carne.

Corbezzolo

Il corbezzolo dona un tocco di colore riconoscibile nella macchia mediterranea grazie alle piccole bacche di colorazione gialla o rossa nel periodo autunnale a seconda del grado di maturazione. Ma il corbezzolo non ha solo frutti rossi o gialli, ma ha anche foglie verdi e fiori bianchi; l’arbusto è sempreverde e fiori e frutti possono essere contemporanei. I frutti del corbezzolo sono utilizzati nella cucina gallurese e sarda per la produzione di mieli, confetture e dolci, oltre che per la produzione di grappe, liquori e vini. Al corbezzolo sono riconosciute proprietà emollienti utili per regolarizzare le funzioni intestinali ed hanno azione antiossidante e antinfiammatoria. Le foglie e le radici del corbezzolo possono essere utilizzate nella preparazione di tisane e decotti.

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25 Marzo 2023 – Redazione

 

Lo sciroppo d’acero è un liquido dolce, vischioso e appiccicoso, ottenuto incidendo il tronco degli aceri (alberi del Genere Acerum). La linfa dolce che fuoriesce da queste incisioni contiene dal 2 al 5% di saccarosio; dopo la raccolta, viene quindi bollita lungamente per far evaporare gran parte dell’acqua concentrando lo sciroppo.

Da un albero di media grandezza si possono ottenere circa 3 kg di zucchero. Gli alberi prevalentemente utilizzati per l’estrazione dello sciroppo (acero da zucchero – A. saccharum – acero rosso – A. rubrum – acero nero – A. nigrum) crescono abbondantemente in alcune regioni situate a cavallo tra Canada e Stati Uniti; non a caso, lo sciroppo d’acero, reperibile nei supermercati più forniti o in erboristeria, è una specialità tipicamente canadese.
Nota: altre specie di acero utilizzate per la produzione di sciroppo sono: acero Manitoba (A. negundo), acero d’argento (A. saccharinum – da non confondere con il saccharum) e acero dell’Oregon (A. macrophyllum).Sciroppi simili si possono ricavare anche da betulle o palme.

Sostituto naturale dello zucchero

Lo sciroppo d’acero rappresenta una delle tante alternative naturali allo zucchero raffinato. Rispetto a quest’ultimo, vanta un potere caloriconettamente inferiore; un cucchiaino da 10 grammi apporta infatti 26 kcal, contro le 39 di un’analoga quantità di saccarosio.
Il potere energetico dello sciroppo d’acero non è quindi trascurabile, ma risparmiare qualche caloria senza ricorrere ai dolcificanti artificiali (i cui effetti cumulativi a lungo termine sono, per certi versi, ancora da chiarire), è già una buona cosa, ovviamente, a patto che non si raddoppino le dosi.
Particolarmente apprezzato da chi segue un’alimentazione naturista, lo sciroppo d’acero (il famoso “maple syrup“) è tradizionalmente impiegato nella preparazione di bevande o per insaporire torte, ciambelle, dessert e piatti vari, come i famosi pancake, gli waffles, il porridge, toast, fiocchi d’avena ecc.
Molti esperti di cucina ne elogiano il sapore definendolo “unico”, anche se la chimica responsabile di queste caratteristiche non è ancora del tutto compresa.

Cenni storici e commerciali

I primi a utilizzare lo sciroppo d’acero furono i nativi americani del continente settentrionale. Successivamente, i coloni europei si appropriarono del sistema, affinando il metodo di produzione grazie a diversi accorgimenti tecnologici.
La provincia canadese di Quebec è la zona di maggior produzione di sciroppo d’acero, dove si raccoglie fino al 70% della quota mondiale.

Nel 2016 l’esportazione canadese è stata di circa 360 milioni di dollari americani (90% dal Quebec). In America, lo stato che produce più sciroppo d’acero è il Vermont (genera circa il 6% dell’offerta globale).

Quanti tipi di sciroppo d’acero esistono?

Secondo la legislazione canadese, per qualificarsi come tale, lo sciroppo d’acero dev’essere prodotto esclusivamente dall’A. saccharum e deve contenere almeno il 66% di zucchero (saccarosio).
Grazie all’organizzazione “International Maple Syrup Institute” (IMSI), in accordo tra Canada, Stati Uniti e Vermont, lo sciroppo d’acero viene differenziato in base alla densità e alla traslucenza.
Le più recenti norme sulla classificazione dello sciroppo d’acero prevedono:

  • Grado A
    • Colore dorato e sapore delicato
    • Colore ambrato e sapore ricco
    • Colore scuro e sapore robusto
    • Colore molto scuro e sapore forte
  • Grado di “elaborazione”
  • Scadente.

Come avviene la produzione di sciroppo d’acero?

L’estrazione dello sciroppo d’acero non avviene tutto l’anno. E’ invece necessario rispettare il ciclo biologico dell’albero e attendere il momento in cui produce lo xilema dolce.
In preparazione alla stagione fredda, l’acero produce e accumula amidoall’interno delle radici e del tronco. Dalla fine dell’inverno e fino in primavera (stagione di raccolta), l’acero converte l’amido in zucchero e, grazie allo xilema, lo trasporta a tutti i distretti della pianta. Alcuni produttori estraggono una piccola quantità di sciroppo anche in autunno.
Gli aceri vengono utilizzati per l’estrazione dello sciroppo a un’età di 30-40 anni e fino a 100. Ogni pianta può supportare da 1 a 3 rubinetti (a seconda del tronco), che vengono impiantati nella corteccia per far defluire lo sciroppo.

Un albero medio produce fino a 12 litri di linfa dolce al giorno (7% della linfa totale in esso contenuta), quindi da 35 a 50 litri per stagione (che dura circa 4-8 settimane).

Lo sciroppo viene estratto di giorno poiché l’abbassamento delle temperature inibisce il flusso del liquido vischioso.

Caratteristiche nutrizionali dello sciroppo d’acero

Oltre a vantare un potere calorico nettamente inferiore rispetto a quello dello zucchero, lo sciroppo d’acero è anche una buona fonte di minerali. Questa è la ragione principale per cui in molti lo preferiscono ad altri sciroppi o allo zucchero semplice.
Lo sciroppo d’acero è costituito principalmente da saccarosio e acqua; sono presenti piccole quantità di glucosio e fruttosio residue dall’idrolisi del saccarosio durante il processo di ebollizione.
Lo sciroppo d’acero fornisce circa 260 kcal per 100 g; contiene il 32% d’acqua e il 67% di carboidrati (90% disaccaridi e monosaccaridi). Proteine, grassi e fibresono assenti o irrilevanti; è presente una certa quantità di amminoacidi liberi.
Per quel che concerne i minerali, lo sciroppo d’acero è considerato una buona fonte di manganese, ma si evincono anche quantità soddisfacenti di zinco, calcio e ferro. In merito alle vitamine, si apprezza un discreto livello di riboflavina (vitamina B2).
Lo sciroppo d’acero contiene un’ampia varietà di composti organici volatili, tra cui la vanillina, l’idrossibutanone e il propionaldeide. Assieme al furanone d’acero, al furanone di fragole e al maltolo, questi composti contribuiscono alla struttura organolettica e gustativa tipica dello sciroppo d’acero. In tutto, i sapori identificati nell’alimento appartengono a 13 famiglie: vaniglia, empireumatico (bruciato), latteo, fruttato, floreale, speziato, deteriorato, acero, confetto, piante-hummuscereali, erbaceo e ligneo.
Recentemente sono stati identificati anche nuovi composti come il quebecolo, un elemento fenolico naturale originato dalla bollitura dello sciroppo d’acero.

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24 Marzo 2023 – Redazione

 

Nonostante il grande consumo di alimenti surgelati rimane ancora il dubbio se le proprietà nutritive, dopo la surgelazione, si deteriorino o rimangano per quantità e qualità come nel prodotto fresco. Il dubbio è legittimo e probabilmente nasce dall’idea che si ha della surgelazione associata alla lavorazione industriale che, nel caso degli alimenti, è spesso collegata a manipolazione e poca genuinità.
Se per nutrienti intendiamo macronutrienti quali carboidrati , proteine e grassi , e micronutrienti quali vitamine e minerali , la loro surgelazione non modifica sostanzialmente la qualità e l’efficacia nutritiva. Consumare surgelati garantisce la conservazione e l’integrità di molti nutrienti, ma non sempre il prodotto mantiene il sapore, le caratteristiche dell’alimento originale e le proprietà nutritive non sempre sono simili al prodotto fresco, dipende dall’alimento, anche perché ogni tipo di“trasformazione” , compresa la cottura casalinga, produce un cambiamento .

Si definisce surgelato un alimento che viene portato ad una temperatura minima di -18° in tempi molto rapidi , da non confondere con la congelazione che raggiunge temperature di
-15° in tempi più lunghi . L’abbassamento rapido della temperatura è uno degli elementi che fa della surgelazione il miglior sistema di conservazione in uso oggi. L’acqua presente in ogni tipo di alimento forma cristalli di ghiaccio minuscoli che non causano lesioni rilevanti alle cellule e quindi non modificano la struttura chimica dei nutrienti nella maggioranza dei casi. Se le cellule sono state danneggiate durante lo scongelamento si ha una fuoriuscita di liquido tipico dei prodotti congelati, se quest’effetto si nota anche nei surgelati è possibile che la surgelazione non sia stata effettuata correttamente o l’alimento abbia subito danni di conservazione nella catena del freddo. Con la surgelazione si blocca la produzione di batteri e di enzimi che a temperature normali provocherebbe la decomposizione dell’alimento dovuta al fatto che queste sostanze si moltiplicano in presenza di acqua e ossigeno, per questo in passato e ancora oggi, un altro ottimo sistema di conservazione per taluni alimenti è l’essicazione. Al momento dell’acquisto le confezioni dei surgelati devono essere integre e si deve controllare la data di scadenza, si possono conservare in casa solo se si ha un congelatore che arrivi a -18° oppure dovrà essere conservato per un tempo consentito dalla temperatura dell’apparecchio. Gli alimenti surgelati hanno un valore nutritivo simile a quelli originali e possono essere inseriti nellacorretta alimentazione quotidiana.

Dal momento della raccolta la verdura inizia a subire processi di ossidazione che possono modificarne il potere nutritivo, questo accade anche se viene conservata in frigorifero. La verdura conservata nel magazzino di raccolta o nel supermercato, ma anche nel frigorifero di casa, subisce delle modificazioni; secondo l’INRAN (Istituto Nazionale di Ricerca per gli Alimenti e la Nutrizione) una buona surgelazione avviene quando il prodotto si surgela da fresco appena raccolto perché la conservazione in frigo di soli 3 giorni provoca la diminuzione di alcuni micronutrienti come la vitamina C: i carciofi ne perdono il 30% , i broccoli l’80% così come gli asparagi, gli spinaci ne perdono il 75% in soli 2 giorni .
Quindi una buona e corretta surgelazione dovrebbe avvenire subito dopo la raccolta senza che il prodotto sia conservato anche per poco tempo. Nella regolamentazione attuale delle etichette non è obbligatorio definire il tempo che passa dalla raccolta alla surgelazione, quindi il consumatore non può determinare quanti nutrienti siano ancora rimasti integri. In alcuni casi la verdura è lavorata e surgelata vicino al luogo della raccolta e/o conservata per pochissimo tempo prima della surgelazione, nonostante ciò non tutte le verdure mantengono anche il “sapore” di quando erano fresche , gli spinaci o quelle in foglia mantengono il sapore più delle altre così come quelle tagliate a cubetti che si usano per fare i minestroni. In ogni caso vista l’importanza della verdura nell’alimentazione è bene che sia mangiata surgelata piuttosto che non mangiarne 2 porzioni al giorno come si dovrebbe, perché sicuramente l’apporto di fibra e di alcuni antiossidanti resta importante.

Date le loro piccole dimensioni il freddo arriva al centro dei legumi molto rapidamente così da farne un ottimo alimento una volta scongelato. Il sapore però non è paragonabile al prodotto fresco, anche se è certamente più vicino all’originale di quelli in scatola che contengono sale per la conservazione. Il legume surgelato ha il vantaggio di essere più pratico anche di quello secco che pur si mantiene in ottime condizioni se non viene conservato in ambienti umidi, ma richiede parecchie ore per rinvenire. Anche per ilegumi il valore nutrizionale dei surgelati dipende dal tempo trascorso tra la raccolta e la surgelazione che mantiene inalterate le proteine e i minerali, mentre permangono solo le vitamine presenti nell’alimento al momento della surgelazione .

Solo alcuni tipi di frutta che hanno piccole dimensioni  mantengono le loro caratteristiche una volta scongelati, in particolare i frutti di bosco e le fragole. Altri tipi di frutta perdono consistenza: pere, mele, uva, cocomero, mentre pesche e banane si ossidano e scuriscono. Anche per la frutta il valore nutrizionale di quella surgelata dipende dal tempo trascorso tra la raccolta e la surgelazione così, mentre lo zucchero (fruttosio) e i minerali rimangono inalterati, le vitamine saranno solo quelle presenti nell’alimento al momento della surgelazione. I frutti piccoli possono perdere liquido durante lo scongelamento, anche se sono stati surgelati bene, perdendo così zucchero, vitamine e minerali, meglio quindi consumare i frutti con il proprio liquido e rapidamente dopo lo scongelamento perché alcune vitamine si possono ossidare e quindi andare perdute.

PESCE

Con la surgelazione i nutrienti del pesce si mantengono per lunghi periodi, variabili a seconda della specie e della taglia, i pesci piatticome la sogliola e i tranci o il pescato lavorato pronto da cucinare si conservano più a lungo. I nutrienti importanti del pesce quali: proteine essenziali ad alto valore biologico, grassi polinsaturi come gli omega 3 , minerali e alcune vitamine liposolubili come la A e la D restano sostanzialmente inalterati. I pesci grassi come il salmone o lo sgombro hanno una data di scadenza inferiore alle altre specie a causa dell’alto contenuto di acidi grassi polinsaturi perché se conservati oltre 4/6 mesi possono irrancidire.
Il merluzzo è un pesce con ottime caratteristiche nutritive, compreso gli omega 3 e le vitamine A e D, è molto adatto ad essere surgelato, intero in taglia piccola, a filetti o lavorato pronto per essere cucinato, mantiene pressoché inalterati i suoi nutrienti. Anche icrostacei, cefalopodi e molluschi si prestano bene ad essere surgelati perché oltre ad essere molto pratici, mantengono pressoché inalterati i loro nutrienti. Per i precotti il mantenimento delle proprietà nutritive dipende dalla cottura, mediamente le proteine e i grassi rimangono invariati.

CARNE

La carne surgelata non è molto diffusa, l’alimento ha solitamente una filiera corta e viene conservato bene anche sottovuoto nellacatena del freddo intorno ai 5° . Anche per la carne si conservano meglio i tagli piccoli a spessore basso, in quanto il freddo raggiunge rapidamente il centro dell’alimento bloccando il deperimento di tutti i nutrienti comprese le proteine ad alto valore biologico. Quando si acquista la carne surgelata è bene sceglierequella magra e con meno grasso visibile (anche per la carne il grasso è il nutriente che si conserva meno a lungo) ben separata: fettine, spezzatino, tranci o quarti di pollo sono anche più pratici perché si scongelano rapidamente rispetto a tagli grossi o animali interi come un tacchino. I nutrienti essenziali della carne come le proteine e il ferro non subiscono modificazioni con la surgelazione.

SCONGELAMENTO

Il consiglio di non ricongelare o risurgelare carne o pesce, o preparazioni alimentari, va osservato. Alcuni alimenti come i cefalopodi o i crostacei, vengono surgelati subito dopo la pesca, poi scongelati e risurgelati più volte per essere mondati, preparati e per dividere le confezioni grandi in più piccole. Queste lavorazioni però vengono fatte in ambienti molto protetti e con attrezzature che garantiscono, almeno dovrebbero, che l’alimento scongelato non venga a contatto con batteri prima di essere risurgelato. In casa è possibile che l’alimento possa essere contaminato e che alcuni batteri possano sopravvivere al ricongelamento per ricomparire la volta successiva. Per questa ragione è bene acquistare confezioni proporzionate a quello che si vuole mangiare, cuocere tutto l’alimento ed eventualmente conservarlo a dovere una volta cotto.

 

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24 Marzo 2023 – Redazione – Fonte: osservatoriomalattierare.it

 

La sindrome da stanchezza cronica (Chronic Fatigue Syndrome) è un disturbo dalle origine ancora oscure, caratterizzato da una stanchezza prolungata e debilitante, e da multipli sintomi non specifici, quali cefalea, mal di gola ricorrente, dolori muscolari e alle ossa, disturbi del sonno, perdita di memoria, difficoltà di concentrazione e da un malessere generale. I sintomi per definizione si protraggono per minimo per 6 mesi, ma spesso nella realtà per anni.

Dall’Università di Firenze uno studio internazionale ipotizza che la malattia sia la conseguenza dell’esposizione al Cadmio

Il gruppo di ricerca della Facoltà di Medicina dell’Università di Firenze guidato dai Prof. Gulisano e Ruggiero, ha recentemente pubblicato un articolo scientifico sulla prestigiosa rivista Medical Hypotheses dove si ipotizza per la prima volta una relazione tra esposizione al Cadmio e Sindrome da Fatica Cronica (definita anche Encefalomielite Mialgica). Questa sindrome neurologica invalidante colpisce milioni di persone nel mondo e si calcola che in Italia i malati siano nell’ordine delle centinaia  di migliaia anche se purtroppo in molti di loro la malattia non è correttamente  diagnosticata. Infatti la diagnosi risulta incerta, lunga e complessa e spesso i malati  sono costretti a subire esami diagnostici per mesi e mesi prima di arrivare alla diagnosi. Come per molte malattie neurodegenerative, le cause non sono note e la terapia, spesso soltanto palliativa, ha scarsi risultati. Il gruppo di ricerca fiorentino, nell’articolo pubblicato, ipotizza per la prima volta un legame tra la malattia ed esposizione al Cadmio.

Il Cadmio è un metallo pesante cancerogeno molto diffuso nei paesi industrializzati, che si produce nell’inquinamento urbano, nell’incenerimento dei rifiuti, nell’elettronica da consumo (batterie al Cadmio), nei processi industriali, nell’edilizia e nel fumo di tabacco.

I ricercatori fiorentini, dopo aver dimostrato i danni indotti dal Cadmio sui neuroni umani, hanno messo a punto una tecnica ecografica semplice e priva di rischi che permette di studiare la corteccia cerebrale senza l’uso di radiazioni, in modo da evidenziare fenomeni di infiammazione o di danno cerebrale nei pazienti affetti da Sindrome da Fatica Cronica e nei soggetti esposti al Cadmio. In questa maniera, sarà possibile diagnosticare precocemente i danni neurotossici conseguenti all’esposizione al Cadmio (ad esempio nei fumatori o nelle persone che vivono in prossimità di aree inquinate, di impianti industriali o inceneritori) ed individuare i sintomi della Sindrome da Fatica Cronica in modo da intervenire il prima possibile. Sarà anche possibile monitorare la malattia e la risposta alle diverse terapie in via di sperimentazione nel mondo, con l’auspicio di poter osservare una reversione del danno cerebrale.

Il prestigio internazionale della rivista dove i ricercatori fiorentini hanno pubblicato questo studio all’avanguardia è testimoniato dalla presenza nel comitato editoriale dei Premi Nobel Arvid Carlsson, John Eccles, Frank Macfarlane Burnet e Linus Pauling, e del pioniere della filosofia della scienza, Sir Karl Popper.

L’articolo, con le immagini relative, è reperibile online sul sito della rivista Medical Hypotheses ed è inoltre stato immediatamente inserito nel database della National Library of Medicine (NIH) del Governo degli Stati Uniti d’America.

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23 Marzo 2023 – Redazione – Marzia MC Chiocchi

 

In vista del Consiglio europeo, calendarizzato il 23 e il 24 marzo, martedi la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha riferito le priorità italiane al Senato e ieri lo ha fatto alla Camera.

Il prossimo vertice a Bruxelles, per la premier, è il momento in cui, in teoria, andrebbe fatto un salto di qualità sui temi dell’immigrazione e del Patto di stabilità. La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, in una lettera indirizzata ai 27 Paesi membri, ma soprattutto all’Italia, ha annunciato «un nuovo sostegno pari a 200 milioni di euro che sarà focalizzato sull’assistenza all’accoglienza» e l’«accelerazione dell’attuazione del meccanismo volontario di solidarietà per i ricollocamenti dei migranti». E l’Italia prende un altro schiaffo, non volendo agire con il pugno di ferro sul blocco delle partenze dal Nordafrica. È inutile ricevere aiuti! Servono solo a creare associazioni e realtà che speculano sugli immigrati, e sacche di nuovi abbandonati a se stessi, pronti a creare problemi! MA ORMAI ABBIAMO CAPITO CHE L’UE VUOLE QUESTO, E L’ITALIA NE È COMPLICE! Ma dov’è il blocco navale di cui parlava Giorgia Meloni non in veste di Premier, ma da segretario di partito?


ANALIZZIAMO DA DOVE TUTTO È PARTITO ⤵️

Cos’è e quando è stato firmato il trattato di Dublino?

«È il regolamento dell’Unione Europea che stabilisce criteri e meccanismi per l’esame, e l’eventuale approvazione, di una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un Paese terzo. Nasce dalle ceneri della Convenzione firmata nella capitale irlandese il 15 giugno 1990, ovvero dal primo trattato internazionale multilaterale firmato dagli allora dodici membri della Comunità europea per darsi regole comuni sull’asilo. In vigore nel 1997, è stato sostituito nel 2003 dal regolamento «Dublino II» che l’ha portato nell’ambito delle competenze dell’Ue. Una terza revisione – «Dublino III» – è stata varata nel giugno 2013».

Cosa stabilisce per quanto riguarda i richiedenti asilo?

«Il principio chiave è dettato dall’articolo 13. «Quando è accertato (…) che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un Paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale». In altre parole, la responsabilità dell’asilo è del Paese di primo sbarco. Ovvero: chi arriva in Italia tocca all’Italia, chi in Spagna alla Spagna e via…»

Quali le situazioni che hanno portato alla sigla del trattato?

«Nel preparare i trattati istitutivi della Cee, poi firmati a Roma nel 1957, gli Stati fondatori hanno deciso di tenere per sé una serie di politiche anche rilevanti, fra cui l’Immigrazione. Non una cosa da poco, se si pensa che solo nei primi quindici anni del secondo dopoguerra il Belgio accolse circa 200 mila italiani. Quando si arriva alla vigila del mercato unico, si pone l’esigenza di regolare l’asilo. Si tratta di evitare il turismo delle richieste, dunque stabilire che ogni straniero possa chiedere il permesso in un solo Paese. In caso di rifiuto, deve avere una seconda opportunità. È allora che si stabilisce il principio del primo approdo».

Fu una decisione difficile? E quali Paesi spinsero di più per arrivare all’intesa?

«Fu una decisione necessaria. Venticinque anni fa furono soprattutto i tedeschi, freschi di riunificazione ed esposti agli effetti della caduta della Cortina di Ferro, a spingere per regole precise. Oltretutto, dal gennaio 1993, nella Comunità europea s’iniziava la libera circolazione dei cittadini. La repubblica federale era già meta richiestissima, anche se la domanda allora era tutta dall’Est. Per l’Italia, la Convenzione fu un campanello d’allarme. La migrazione era prevalentemente albanese e controllabile. Per il resto si lasciava spesso correre, prassi alla quale «Dublino» costrinse a mettere in parte fine.

Cos’è cambiato in questi anni da mettere in discussione il trattato?

«Il contesto mediterraneo, africano e mediorientale. In anni recenti la guerra in Siria, le dittature in Eritrea e nella parte centrale del continente nero, l’instabilità afghana e pachistana, le primavere arabe tradite, hanno gonfiato il flusso dei migranti che, sino a giorni non lontani, erano in prevalenze gente a caccia di un lavoro. La caduta del regime di Gheddafi ha aperto la porta libica. I popoli in fuga hanno cominciato ad arrivare in Italia e Grecia. Più recentemente, soprattutto per l’offensiva dell’Isis in Siria, si è affollata la via balcanica. Il dato è che milioni di persone fanno la fila per cercare la pace nell’Unione».

Cos’è che non funziona? Perché è considerato uno strumento superato?

«Anzitutto viene contestato l’obbligo del Paese di primo approdo di gestire tutti gli accessi e accogliere chi arriva, sia l’Italia, la Grecia o l’Ungheria, alfieri europei più esposti agli sbarchi e desiderosi di maggiore solidarietà. In seconda battuta, lo stesso precetto impedisce di diritto la possibilità di arrivare a un meccanismo di emergenza che conduca alla redistribuzione obbligatoria di parte dei rifugiati nei momenti di maggiore crisi, ipotesi suggerita da Francia e Germania. Berlino continua a ripetere che «Dublino» è in vigore e la ripartizione obbligatoria verrebbe a valle della sua applicazione. L’Italia ne chiede la revisione: un trattato vecchio, si fa notare, per un mondo cambiato».

Ma chi ha firmato nel 2013 il nuovo Trattato di Dublino, denominato III, alla scadenza naturale dei 10 anni dal precedente?

Pochi documenti hanno influenzato le sorti attuali dell’Italia di quanto non abbia fatto il trattato di Dublino, di cui però l’italiano medio ha sentito parlare solo molto tardi, quando ormai la ratifica era lontana nel tempo e le responsabilità fumose e difficili da assegnare. Quello che si sa di sicuro è che attualmente è in vigore il Dublino III, firmato dal governo di Enrico Letta (ministro degli interni Angelino Alfano, ministro degli esteri Emma Bonino), che ribadisce il principio di responsabilità permanente del paese di primo approdo dei migranti, definendolo «una pietra miliare». Di suo, vi aggiunge il criterio della tutela dei minori e del ricongiungimento familiare per stabilire la competenza dei paesi a concedere il diritto d’asilo (competenza ad accogliere persone con le carte in regola, già identificate e vagliate dai paesi di primo approdo).

Ma il difficile è risalire alla responsabilità iniziale per la «pietra miliare» che rende il paese di primo approdo la discarica dell’Unione europea (adesso praticamente solo l’Italia, da quando la Grecia può spedire gli irregolari in Turchia, pagata miliardi dall’Ue per tenerseli. La Spagna comincia ad avere dei flussi in più da quando Minniti ha fatto l’accordo con i libici: circa 8 mila quest’anno, il doppio dei loro arrivi nel 2016, ma sempre un’inezia rispetto agli sbarchi in Italia).

Il trattato di Dublino III è stato siglato nel 2013 perché quello precedente aveva una scadenza: dieci anni.

Il Dublino II era stato infatti firmato nel 2003 dal governo Berlusconi (ministro degli interni Giuseppe Pisanu, ministro degli esteri Gianfranco Fini), e si basava a sua volta sul precedente documento, che si chiamava non Trattato ma Convenzione di Dublino. A questo il trattato firmato dal governo di centrodestra aveva aggiunto l’obbligo di prendere le impronte digitali. Adesso sembra un’ovvietà ma allora erano forti le polemiche dei garantisti per i quali è una discriminazione prendere le impronte ai soli extracomunitari. Esse però sono servite a creare per la prima volta una banca dati ottenendo così l’emersione di identità e pratiche multiple.

Ma il principio che lega per sempre il migrante al paese di primo approdo non nasce neppure nel 2003, risale al 1° settembre 1997, quando andò in vigore l’originaria Convenzione di Dublino. Quell’anno in Italia era giunta un’ondata di migranti albanesi (scatenata dallo scandalo finanziario delle «piramidi») che per la prima volta non fu respinta dal governo dell’epoca, il Romano Prodi I (ministro degli interni Giorgio Napolitano, ministro degli esteri Lamberto Dini), ma lasciata sostanzialmente sulle spalle delle Caritas e delle parrocchie, prevalentemente pugliesi.

Dunque la Convenzione che andò in vigore nel 1997 era stata originariamente firmata nel lontano 1990, quando era al potere l’ultimo governo di Giulio Andreotti, l’Andreotti VI (ministro degli esteri Gianni De Michelis, Psi, ministro dell’interno Vincenzo Scotti, Dc). Come fa notare Claudio Borghi Aquilani sul suo account Twitter, all’epoca non solo non c’erano barconi di migliaia di uomini lanciati quotidianamente verso le coste dell’Italia, ma non esisteva neppure il concetto dell’entrata libera in un paese senza passare dall’ufficio passaporti e dal visto del paese ricevente.

Quella prima convenzione firmata a Dublino stabiliva una serie di criteri di assegnazione ai vari paesi dei richiedenti asilo in possesso di documenti, poi diceva cosa fare nei confronti degli irregolari: «Art.6. Se il richiedente l’asilo ha varcato irregolarmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da uno Stato non membro delle Comunità europee, la frontiera di uno Stato membro, e se il suo ingresso attraverso detta frontiera può essere provato, l’esame della domanda di asilo è di competenza di quest’ultimo Stato membro». All’epoca era una norma di semplice buon senso, c’erano ancora le frontiere anche all’interno dell’Europa, figuriamoci se si poteva entrare tranquillamente dall’esterno, tant’è vero che proprio quel governo lì fece fronte l’anno dopo al primo monumentale sbarco degli albanesi in Puglia. Era l’agosto 1991 e il Viminale dispose un ponte aereo che in una sola notte riportò in Albania 17.467 persone arrivate in Puglia sei giorni prima, con l’impiego di 3 mila uomini e l’intera 46esima aerobrigata, in tandem con l’Alitalia.

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22 Marzo 2023 – Redazione – Articolo a cura di Imogen Foulkes

 

La Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948 è nata dal desiderio di garantire che gli orrori della Seconda guerra mondiale non si ripetessero. Nell’anno del 75° anniversario del documento, SWI swissinfo.ch analizza le sue origini e la sua validità nel contesto attuale.

La Seconda guerra mondiale è stata la più letale della storia. Morirono circa 70 milioni di persone, tra cui 50 milioni di civili. La Germania nazista sterminò circa sei milioni di ebrei ed ebree – due terzi della popolazione ebraica europea – che furono sistematicamente perseguitati, depredati delle loro proprietà e deportati con la forza, insieme ad altre minoranze considerate indesiderabili, per morire nei campi di concentramento. Le popolazioni civili sono state bombardate. I Paesi sono stati invasi e i loro cittadini e cittadine sono stati costretti al lavoro forzato. Ci furono stupri di massa, uccisioni e distruzioni.

Lottando per emergere da tale disumanità, e con le Nazioni Unite che subentravano alla screditata Società delle Nazioni che non era riuscita a fermare la guerra, i leader mondiali dissero: “Mai più”. Decisero di completare la Carta delle Nazioni Unite con una serie di principi che garantissero i diritti di ogni individuo ovunque nel mondo.

COME NACQUE LA DICHIARAZIONE?

La questione fu affrontata nella prima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite nel 1946 e affidata alla Commissione per i diritti umani, predecessore del Consiglio per i diritti umani con sede a Ginevra.

La Commissione per i diritti umani si riunì per la prima volta nel gennaio 1947 a New York e istituì un comitato per la redazione della Dichiarazione, presieduto da Eleanor Roosevelt, vedova del presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt. Tutti i membri del comitato svolsero ruoli chiave, ma Eleanor Roosevelt fu riconosciuta come la forza trainante per l’adozione della Dichiarazione. La descrisse come una “Magna Carta” per i diritti umani.

Anche altre donne hanno avuto un ruolo. Ad esempio, all’indiana Hansa Mehta, membro della sottocommissione per lo statuto delle donne, si attribuisce il merito di aver fatto cambiare le prime parole della Dichiarazione da “tutti gli uomini nascono liberi e uguali” a “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali”.

La bozza finale fu presentata alla Commissione per i diritti umani, riunita a Ginevra. Il documento fu inviato a tutti i 58 Stati membri dell’ONU dell’epoca per eventuali commenti. Il 10 dicembre 1948, durante una sessione a Parigi, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione universale dei diritti umani.

Un “testo miracoloso”

La Dichiarazione afferma che “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti”. Aggiunge che devono agire gli uni verso gli altri in uno spirito di fratellanza e che a ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà enunciati nella Dichiarazione “senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”. La Dichiarazione sancisce che “ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona” e che “nessun individuo può essere tenuto in stato di schiavitù”. La Dichiarazione considera inoltre la libertà di movimento, di parola e di associazione un diritto umano.”

L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani, l’austriaco Volker Türk, l’ha definita “un testo molto completo e miracoloso”. Per la giurista sudafricana Navanethem Pillay, Alto Commissario ONU dal 2008 al 2014, la Dichiarazione è una fonte di ispirazione. “Immaginate cosa ha significato per me e per tutti e tutte noi che eravamo sotto l’apartheid e conoscevamo solo le leggi razziste”, ha dichiarato in un’intervista a SWI swissinfo.ch.

Phil Lynch, direttore della ONG International Service for Human Rights (ISHRLink esterno), con sede a Ginevra, afferma che la Dichiarazione “ha avuto un impatto trasformativo sulle persone e sulle comunità di tutto il mondo, informando e ispirando lo sviluppo di leggi e politiche nazionali, sostenendo le richieste dei movimenti sociali e degli attori della società civile, fornendo un importante strumento per chi difende i diritti umani e sancendo valori universali che uniscono l’umanità e stabiliscono le condizioni affinché tutte le persone possano vivere con dignità”.

Come ha dato vita a trattati internazionali

La Dichiarazione è considerata la base del Diritto internazionale dei diritti umani. I suoi principi sono stati precisati in una serie di trattati internazionali riguardanti, ad esempio, l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione (1965), i diritti civili e politici (1966), i diritti economici, sociali e culturali (1966), l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione nei confronti delle donne (1979), la lotta contro la tortura (1984) e i diritti dell’infanzia (1989).

Navanethem Pillay considera la Dichiarazione come “la nostra legge fondamentale”, che stabilisce i principi fondamentali da cui derivano queste convenzioni. Alcuni Paesi, come il Sudafrica di Mandela, ne hanno incorporato i principi nella loro Costituzione nazionale.

TUTTAVIA , RESTA IL PROBLEMA DI CONVINCERE I GOVERNI A RISPETTARLI. IN TROPPI CASI UNA MERA ILLUSIONE!!!!!!

“Stiamo perdendo l’essenza di ciò che la Dichiarazione universale dei diritti umani era e doveva essere in risposta agli eventi catastrofici della Seconda guerra mondiale”, ha dichiarato Türk a SWI swissinfo.ch in una recente intervista esclusiva. “In tante situazioni nel mondo c’è di nuovo questo disprezzo per le altre persone, il disprezzo per l’essere umano, il disprezzo per la dignità umana”.

Chi vigila?

Nel giugno 1993, le Nazioni Unite organizzarono la Conferenza mondiale sui diritti umani a Vienna, in Austria. Il risultato principale furono la Dichiarazione e il Programma d’azione di Vienna, volti a rafforzare il lavoro sui diritti umani in tutto il mondo. La Dichiarazione di Vienna chiedeva anche di rafforzare la capacità di monitoraggio dell’ONU, istituendo tra le varie cose la carica di Alto Commissario per i diritti umani. Questa posizione è stata istituita ufficialmente nel dicembre 1993.

Oggi l’ONU dispone di numerosi modi per monitorare la situazione e cercare di far sì che ogni Stato rispetti i diritti umani. Gli “Organi dei trattati” controllano il modo in cui i Governi applicano le convenzioni sui diritti umani, mentre i relatori e le relatrici speciali, così come le missioni d’inchiesta composte da esperti ed esperte indipendenti, esaminano questioni specifiche sui diritti umani o situazioni nei Paesi.

Ad esempio, il Comitato per i diritti dell’infanzia ha recentemente esaminato l’attuazione del trattato omonimo da parte di sette Paesi, esprimendo serie preoccupazioni sulle punizioni corporali in Azerbaigian e sulla violenza sessuale contro le ragazze in Bolivia. I Paesi sono chiamati a riferire su come hanno seguito le raccomandazioni delle Nazioni Unite.

Un altro esempio è quello dei relatori e relatrici speciali che recentemente hanno esortato il presidente dello Zimbabwe a respingere un disegno di legge che, secondo loro, limiterebbe fortemente lo spazio civico e il diritto alla libertà di associazione.

Questi organismi ed esperti/e riferiscono al Consiglio per i diritti umani, che si riunisce almeno tre volte l’anno a Ginevra.

La Dichiarazione necessita di un aggiornamento?

“Direi che c’è bisogno di aggiornarla, per enunciare altri diritti che non sono stati sanciti come avrebbero dovuto: i diritti delle popolazioni indigene, i diritti delle donne, i diritti dei bambini”, afferma Navanethem Pillay. “Per il resto, ho la massima fiducia nella Dichiarazione come standard. Non si possono contestare questi principi”.

Phil Lynch sostiene dal canto suo che più che di un aggiornamento, la Dichiarazione avrebbe bisogno di essere attuata, in modo che gli Stati e gli attori non statali che violano i diritti umani siano chiamati a risponderne. Ciò richiede leggi e Costituzioni nazionali che sanciscano i diritti, tribunali e corti indipendenti e “una società civile vivace e indipendente e persone che difendono i diritti umani”.

Secondo l’attuale Alto Commissario dell’ONU Volker Türk, (A PAROLE SCRIVIAMO NOI) la Dichiarazione non deve essere vista “come una reliquia”, ma come un insieme di principi fondamentali che forniscono risposte ai problemi attuali e futuri.

Durante una conferenza stampa tenutasi in dicembre, alla domanda se avrebbe cambiato qualcosa nella Dichiarazione redatta 75 anni fa, Türk ha risposto che avrebbe piuttosto chiesto che il documento venisse inteso alla luce delle preoccupazioni attuali. “Vorrei dire a tutti i leader di oggi: leggete la Dichiarazione universale dei diritti umani, usatela e consideratela come un obbligo ad agire”.

VORREMMO DIRE ALL’ONU, INVECE, CHE DOVREBBE VIGILARE E FAR METTERE IN ATTO TALI DIRITTI, E SMETTERE DI PONTIFICARE AL VENTO. VORREMMO RICORDARE ALL’ONU CHE E’ NATA PER AGIRE CONCRETAMENTE LADDOVE NECESSARIO!

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21 Marzo 2023 – Redazione – Traduzione di una relazione del Prof. Genovesi –  Dolcevitaonline

 

L’elettrosensibilità o ipersensibilità elettromagnetica (Ehs), da alcuni definita anche con il nome altisonante di allergia al wi-fi, è la presunta malattia di cui si parla fin dal 1932 i cui sintomi sarebbero causati, legati o aggravati dall’esposizione ai campi elettromagnetici, ossia dall’inquinamento elettromagnetico.

Per parlare di elettrosensibilita’ occorre partire dalla prima infanzia. I campi elettromagnetici a diverse frequenze sono in grado di produrre una variazione dei flussi di calcio che attraversano la membrana cellulare. Queste variazioni di flusso, rispetto ad un’esposizione chimica o fisica, sono normali purché rientrino nell’idoneità strutturale della membrana cellulare stessa. Il Prof. Genovesi, medico endocrinologo, immunologo, nonché ricercatore di chiara fama internazionale, del Policlinico Umberto I di Roma, ha potuto constatare, nel corso dei suoi studi, concomitanze di sintomatologie correlate alla sensibilità chimica, all’elettrosensibilita’, alla fatica cronica e alla Fibromialgia, che non sono entità patologiche diverse, ma sono combinazioni concomitanti dal punto di vista patogenetico.

Potremmo classificare le concomitanze

– Caratteristiche genetiche

– Maggiore predisposizione allo sviluppo di   meccanismi di stress ossidstivo

– Concomitanza di meccanismi epigenetici , di condizioni sopraggiunte nel tempo, sia di tipo chimico che di tipo biofisico.

L’epigenetica riguarda quelle condizioni che vengono acquisite nel tempo e che riescono a rimodulare ed interferire con i geni, influenzata da fattori esterni di tipo psicologico. Questa condizione si correla anche ad una composizione di membrane cellulari in cui ricorre spesso un’inadeguata distribuzione degli acidi grassi saturi, insaturi e polinsaturi, che molto spesso sono alterati strutturalmente sia da fenomeni di stress ossidativo, ma anche dal fatto che le nostre fonti alimentari provengono da alimenti che subiscono una cottura spesso sd alte temperature, alterando così la struttura morfologica degli alimenti e delle proteine, che entreranno nella composizione delle membrane cellulari.

Inoltre, abbiamo una tendenza spiccata ad avere un deficit di Vitamina D, perché non sempre trascorriamo del tempo alla luce del sole.La grande parte delle fonti alimentari sono costituiti da Vit. D inattiva! L’attivazione epatorenale a volte e’ interferita da fenomeni ambientali, creando Disbiosi intestinale.

RIEPILOGANDO: LE CAUSE PIÙ FREQUENTI SONO:

– DISBIOSI INTESTINALE 

– DEFICIT DI VITAMINA C

– FATTORI GENETICI ED EPIGENETICI

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DISBIOSI

La disbiosi o disbatteriosi intestinale è un’alterazione o mancata omeostasidella microflora / microbiota normalmente presente nel colon.

In questa sede è infatti presente una straordinaria quantità e varietà di microrganismi – in un grammo di feci si rivengono circa 100 miliardi di cellulevive – anche se la maggior parte di questi è costituita da batteri.

Sono forme molto comuni di disbiosi anche la crescita eccessiva di microorganismi nel tratto del tenue, tra i quali:

  • batteri (SIBO);
  • funghi (SIFO).

Il disturbo è da tenere sotto controllo in quanto si verificano connessioni linfatiche di tipo enteroencefalico (collegamento linfatico tra intestìno e cervello) che implicano un’alterazione della flora entropica intestinale, favorendo fenomeni di tipo neurotossico.

Questa situazione richiede un coacervo di elementi diagnostici, pochissimi dei quali si trovano nelle strutture sanitarie pubbliche. Chiediamoci perché?!
infatti se il paziente vuole studiare ed analizzare se stesso in maniera approfondita, o spende un sacco di soldi privatamente, cercando i medici giusti, o, come si dice in gergo, si attacca al tram!

ES:

– aLa Vit.D è in convenzione Asl
– Lo studio del microbiota no
– Lo studio epigenetico no

Questi studi sono stati condotti solo grazie alla buona volontà di un gruppo di medici sparsi in modo non omogeneo su tutto il territorio nazionale, grazie si quali sono stati distribuiti ai pazienti, questionari per verificare quanti fossero i casi di elettrosensibilita’.

PERCHE’ UN CAMPO ELETTROMAGNETICO PUÒ CREARE DISAGIO E MALESSERE?

La questione è stata affrontata negli anni ‘90 da un gruppo di ricercatori che avevano constststo quanto l’esposizione si campi elettromagnetici (WI-FI in particolare), producesse un aumento della permeabilità della barriera ematocefalica. Questo processo va correlato all’interazione chimica che, esasperata, crea neurotossicita’.

L’uomo moderno conduce la propria esistenza immerso sempre più profondamente all’interno di un vero e proprio mare di campi elettromagnetici della più svariata natura. Da quelli a bassa frequenza generati dagli elettrodotti, dagli impianti elettrici delle abitazioni e da qualsiasi apparecchiatura elettronica domestica o industriale, fino a quelli ad alta frequenza riconducibili ai telefoni cellulari, al WI- FI, ai cordless, al bluetooth, a qualsiasi dispositivo lavori “senza fili”, alle stazioni radio base, ai ripetitori televisivi, ai radar e molto altro ancora.

Le conseguenze sul corpo umano a lungo termine di una simile immersione all’interno di questo mare elettromagnetico non sono al momento note, mancando per forza di cose l’ausilio di studi attendibili ed esaustivi in materia. Ho scritto per forza di cose, dal momento che sarebbe materialmente impossibile produrre studi di questo genere, dal momento che se è pur vero che gli elettrodomestici e le antenne televisive esistono da quasi un secolo, è altrettanto vero che l’incremento esponenziale all’esposizione ad ogni sorta di campi elettromagnetici riguarda esclusivamente gli ultimi vent’anni, un tempo assolutamente troppo breve per prendere coscienza delle conseguenze a lungo termine sulla salute umana.

In linea generale l’esposizione all’inquinamento elettromagnetico è stata messa in relazione con larga parte delle “malattie del progresso”, dai tumori alle malattie autoimmuni, a quelle neurologiche degenerative, alle allergie, fino all’infertilità, ma si tratta ovviamente di supposizioni che pur possedendo solide basi scientifiche non sono supportate da studi e ricerche che abbiano prodotto risultati incontrovertibili.

Quello che invece sappiamo con sicurezza è che una minoranza di noi, circa il 3% della popolazione mondiale secondo l’OMS, soffre di elettrosensibilità e manifesta in maniera più o meno grave una sorta di allergia nei confronti dei campi elettromagnetici. I disturbi più frequenti, che possono comparire con diversi livelli di gravità e scompaiono qualora il soggetto si allontani dalla fonte elettromagnetica, sono cefalea, insonnia, debolezza, riduzione della memoria e deficit di concentrazione, sindromi dolorose, eruzioni cutanee, disturbi uditivi, visivi e dell’equilibrio, alterazioni dell’umore, sbalzi pressori e tachicardia.

I sintomi in questione possono manifestarsi in forma lieve ed essere per questo tollerabili, ma anche in forma grave, fino al punto da compromettere seriamente l’efficienza fisica e la qualità della vita costituendo un vero e proprio handicap. Le terapie farmacologiche, oltretutto mirate semplicemente a lenire i sintomi e non certo a risolvere il problema, si sono rivelate del tutto inefficaci e l’unica vera cura sembra essere costituita dall’evitare l’esposizione ai campi elettromagnetici, un’alchimia che per il malato sta diventando più difficile ogni giorno che passa, all’interno di un mondo sempre più “wireless”.

La OMS e la comunità scientifica si sono fino ad oggi rifiutate di riconoscere l’elettrosensibilità come una vera e propria malattia, preferendo considerarla una sorta di suggestione psicologica, privando in questo modo i soggetti colpiti da questa patologia di qualsiasi tutela e trattandoli alla stessa stregua di un malato psichiatrico. Nonostante ciò il Consiglio D’Europa in una risoluzione del 2011 ha raccomandato agli stati membri di «prestare un’attenzione particolare alle persone elettrosensibili che soffrono di una sindrome di intolleranza ai campi elettromagnetici e di introdurre specifiche misure per proteggerli, inclusa la creazione di aree wave-free, non coperte dalle reti wireless» ed in Svezia la sindrome, pur non essendo riconosciuta come malattia, è riconosciuta dal governo come causa d’invalidità funzionale.

Per chi soffre di elettrosensibilità e molte volte si trova nella condizione di vedere compromessa la propria vita, il lavoro e gli affetti familiari, si tratta insomma di un calvario senza fine e adesso che sta per dilagare la nuova tecnologia 5G un nuovo “mostro” si affaccia spaventoso all’orizzonte.

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I20 Marzo 2023 – Redazione – Introduzione di Marzia MC Chiocchi – articolo di Ugo Natale (Gazzetta Ennese)

 

Quante volte dal 2008 ad oggi (fallimento della Leheman Brothers negli USA) le Banche, i titoli e tutto ciò che al settore finanziario è collegato, hanno fatto tremare i risparmiatori! Pensiamo ai titoli spazzatura venduti nel mondo a gente comune che, su questi, ha investito grosse somme di danaro tra cui, spesso, i risparmi di una vita! Nel 2015 furono 4 le banche italiane  finite in default: Banca Etruria, Banca Marche, Cassa di Risparmio di Ferrara e CariChieti, e, per conseguenza, furono numerosi gli investitori che persero i propri soldi. Secondo una spiegazione semplicistica, la colpa fu attribuita ad un decreto governativo, ma in realtà, studiando la genesi della storia, dobbiamo andare indietro di un paio d’anni, quando emersero i primi problemi per responsabilità degli amministratori e degli istituti bancari, senza che il Governo Italiano, l’Unione Europea, la Banca d’Italia, la Consob e i politici intervenissero in qualche modo. Tanto che centoquarantamila risparmiatori persero in totale 430 milioni di euro.

Le banche hanno sempre giocato sporco, ma negli ultimi 20 anni ancor di più. Ed e’ notizia di due giorni fa che la BCE (Banca Centrale Europea) ha alzato ancora di più i tassi sui mutui, sferrando una nuova batosta! Le élites che gestiscono fiumi di danaro hanno sempre fatto e continuano a far il cattivo tempo, anche se non sempre ne sono usciti puliti. A livello mondiale, dopo oltre 60 anni, nel 1999, fu Clinton a cambiare le regole, che innescarono quella miccia che, nel 1929, fece saltare il banco a Wall Street. Ma di questo parleremo alla fine dell’articolo.
Prima, e a tal proposito, racconterò la storia di un italoamericano, Ferdinand Pecora, che indagò sul martedì nero di Wall Street (New York 29 ottobre 1929) e che, per circa 60 anni, grazie alla sua legge, ha tutelato i nostri risparmi, anche a livello mondiale. Ecco chi era in questo articolo di Ugo Natale della Gazzetta Ennese ⤵️⤵️⤵️⤵️⤵️

Cercando l’archivio di Time magazine per una ricerca, mi sono imbattuto nella copertina del numero 24 del 12 Giugno 1933. La foto è quella di un distinto signore dai capelli neri, lineamenti marcati e un sigaro in bocca. Sotto la foto il nome: Ferdinand Pecora.

Fui incuriosito perché il nome era tipicamente Italiano, quasi sicuramente Siciliano. Perché incuriosito dunque? Perché quelli erano anni in cui tutti gli Italiani erano considerati “WOP” cioé guappi sporchi e truffaldini. Incuriosito, anche perché non avevo trovato alcun accenno di Ferdinand Pecora nel libro di Mangione e Morreale “La Storia, five centuries of the Italian American experience”. Mi sono allora mosso sul Web, e ho scoperto una storia che mi ha letteralmente scosso per la sua attualità.

Ferdinand Pecora era nato a Nicosia, provincia di Enna, il 6 Gennaio 1882. La famiglia era emigrata in America nel 1886. Da ragazzo Ferdinand era stato costretto a lasciare la scuola per un incidente sul lavoro subito dal padre. Ma il suo forte carattere e determinazione lo portarono a finire con successo la New York Law School fino a passare l’esame di abilitazione per lo Stato di New York nel 1911.

Nel 1918 fu nominato vice procuratore distrettuale per la città di New York, mettendosi in luce per le sue capacità investigative ma sopratutto per la sua onestà. Onestà che ovviamente dava fastidio all’apparato organizzativo (Tammany Hall) del Partito democratico cui Pecora apparteneva. Infatti fu proprio Tammany Hall che bocciò la nomina di Pecora a procuratore distrettuale nel 1929. A questo punto Pecora lasciò gli uffici della procura per la libera professione. Ma Pecora aveva già lasciato un importante traccia del suo onesto e capace lavoro in procura. Era riuscito infatti a fare chiudere più di cento “bucket shops”. Questi erano dei veri uffici clandestini dove si scommetteva sull’aumento o sulla diminuzione del valore di titoli e azioni ma anche sul prezzo a venire del petrolio, del grano etc. In considerazione del fatto che in effetti non avveniva nessun acquisto o vendita di azioni o altro, l’operazione era considerata illegale, perché il “bucket shop” operava come un casinò senza licenza e supervisione delle autorità di controllo.

Nel 1932 il Senato a maggioranza Repubblicana istituì una commissione d’inchiesta per stabilire le cause dell’orrendo crash di Wall Street nel 1929. Era chiaro a tutti che vi erano state irregolarità, vere e proprie attività criminali di tipico stampo mafioso tra le banche e gli istituti finanziari dell’epoca. I primi due presidenti della commissione furono mandati a casa con l’accusa di incompetenza mentre il terzo si dimise quando si rese conto che il Senato aveva posto evidenti limiti ai suoi poteri di investigatore. Nel 1933 a Pecora fu dato mandato di concludere l’inchiesta. Nel frattempo le elezioni avevano portato i Democratici a conquistare la maggioranza del Senato e il nuovo presidente Franklin D. Roosevelt si impegnò personalmente affinché l’inchiesta continuasse e andasse più a fondo possibile. In fin dei conti le cifre parlavano chiaro. Dal 1929 la metà delle banche Americane erano fallite e avevano portato nelle tombe i risparmi di nove milioni di famiglie Americane. Lo stock market aveva perso quasi l’80% del suo valore e secondo stime ufficiali vi erano 17 milioni di disoccupati. Pecora, con pieni poteri, si mise subito al lavoro, e con la sua squadra di avvocati e commercialisti passò al setaccio migliaia di documenti, ricevute fiscali, fatture, insomma tutto quello che poteva interessare. Pecora aveva una prodigiosa memoria e una grandissima capacità di mettere insieme dettagli che ad altri sembravano scollati dal grande mosaico che lo stesso Pecora stava costruendo.

Il primo testimone fu “Sunshine Charley” Mitchell presidente della National City Bank, oggi Citicorp. Il mariulo sotto pressione ammise che sin dal 1916 la banca trafficava in titoli, contravvenendo a quanto prevedeva la legge d’allora. In più Pecora lo mise di fronte al fatto compiuto quando gli fece ammettere di avere evaso le tasse nel 1929 ricorrendo al famoso intrallazzo, per i ricchi, del prestito ricevuto dalla banca. Mitchell dovette anche ammettere chetra il 1927 e il 1928 la National City Bank collocò sul mercato 90 milioni di dollari di titoli spazzatura del governo Peruviano contrabbandandoli per ottimi. E questo era solamente una delle attività criminali che vennero alla luce grazie alla “Pecora Commission”. In un articolo a proposito di tutto il liquame che stava venendo a galla, Time magazine coniò il termine “Banksters” peri identificare i tipi come Mitchell mentre il Senatore del Montana Burton Wheeler disse che quanto meno questi individui avrebbero dovuto essere trattati alla stregua di Al Capone.

Un altro testimone eccellente fu J.P.Morgan Jr.. Quando Pecora gli chiese se avesse pagato le tasse sul reddito per gli anni 1930, ‘31, ‘32 Morgan, dall’alto della sua proverbiale arroganza, disse di non ricordare, al che Pecora presentò documenti che dimostravano che la risposta del bankster avrebbe dovuto essere ‘No’.

ADESSO LEGGETE ATTENTAMENTE QUESTI DUE PASSAGGI PERCHÉ SONO LA CONSEGUENZA LOGICA DI TUTTO IL CAOS CHE STIAMO VIVENDO ⤵️⤵️⤵️⤵️⤵️

Alla fine il fantastico lavoro di Pecora e dei suoi collaboratori dimostrò che le attività criminali di banche e istituti finanziari avevano portato la Great Depression del 1929 e avevano continuato a mietere vittime negli anni a venire. Il governo Roosevelt, intanto, varò una serie di misure che effettivamente limitavano la manovrabilità di pirati e sciacalli che operavano tra le banche e gli istituti finanziari. Nel 1933 fu varata la Security Act e nel 1934 la Security Exchange Act mentre nel 1933 vide la luce la Famosa legge Glass-Steagall Act che tra l’altro fortemente limitava la speculazione incontrollata e criminale delle banche e dei mercati finanziari.

Nel Novembre del 1999 il Presidente Democratico, si fa per dire, Clinton firmò la legge che di fatto smantellava il Glas Seagall Act aprendo così le porte del pollaio che fu immediatamente invaso dagli sciacalli e dai lupi di Wall Street.

La straordinaria attualità dei risultati della “Pecora Commission” è che per esempio mentre si parlava di sacrifici i “pezzi da novanta” delle banche si arricchivano in modo vergognoso rispetto ai lavoratori e impiegati. 1929 o 2009?

L’inchiesta provò, anche che per esempio come i trader fossero incentivati dietro compenso di laute provvigioni a vendere quanti più titoli potessero anche quelli spazzatura e tossici. 1929 o 2009? Insomma l’attualità della “Pecora Commission” è addirittura imbarazzante se si pensa cheFerdinand Pecora l’aveva prevista già nel 1939 col suo libro “Wall Street under oath”. Ferdinand Pecora, un grande onesto Italiano e un eroe Americano.

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18 Marzo 2023 – Rredazione – Botteega.it

Ma quante farine esistono?Semola, farina 00, farina 0, farina 1, farina 2, integrale, farina di farro… Cosa significano questi nomi e questi numeri? Tutto comincia con un cereale e un mulino. Non sempre un cereale a dire il vero, ma nella maggior parte dei casi si. Innanzitutto, quando si parla di farina in generale, ci riferiamo a quella di grano tenero (Triticum Aestivum), anche se in commercio ormai ne esistono di tipi diversi: di cereali, frutta secca oleosa, e addirittura di legumi.

IL PERCHÉ DEI NUMERI DELLA FARINA:”L’ABBURATAMENTO”

Quando la parola farina è seguita da un numero, sappiamo di essere di fronte ad uno sfarinato ricavato dalla macinazione del grano tenero. I vari numeri corrispondono al suo grado di raffinazione, in modo inversamente proporzionale: la farina 00 è la più raffinata, mentre la farina integrale, come suggerisce il nome stesso, è quella più completa, ovvero quella che mantiene le caratteristiche del seme. Ma occorre sapere che questa classificazione vale solo per la farina di grano tenero, e per comprendere la differenza che c’è tra farina 00, 0, 1, 2 e integrale, bisogna partire dalla parola abburattamento.

PER SEMPLIFICARE POSSIAMO IMMAGINARE IL FRUTTO SECCO DEL GRANO COME FORMATO DA 3 PARTI:

crusca e cruschello (esterno)
• endosperma (interno)
germe di grano (nella parte inferiore dell’endosperma)

Il tasso di abburattamento di una farina indica quanta parte del chicco è stata utilizzata per produrla. Quindi è direttamente proporzionale alla crusca contenuta.

Nel caso delle farine integrali, che utilizzano anche la crusca del grano, l’abburattamento sarà maggiore. Quando invece le farine sono chiare, fini, leggere, l’abburattamento è basso, perché si usa principalmente la parte centrale del chicco e si elimina il rivestimento esterno. Quindi, la quantità di crusca contenuta, è il criterio in base al quale si classificano le farine di grano tenero secondo la legge italiana, come stabilito dal decreto n.187 del 9 febbraio 2001. Il problema di questa classificazione è che permette di chiamare integrale anche una farina che non contiene davvero tutto il chicco. E questo lo vedremo più avanti!

GRADO DI ABBURATAMENTO DELLE FARINO

  • Farina 00 – 50%
  • Farina 0 – 72%
  • Farina 1 – 80%
  • Farina 2 – 85%
  • Farina integrale – 100%

FARINA 00

La farina 00 è la più raffinata di tutte e si può ottenere solo attraverso mulini a cilindri, che eliminano crusca e germe per conservare e macinare molto finemente solo l’endosperma, la parte interna del chicco. Chiamata anche fior di farina, è priva di crusca e di colore bianco candido, è finissima e conferisce ai prodotti una gran morbidezza. Dal punto di vista nutrizionale contiene principalmente solo amido (68,7 g su 100 g), quindi tanti carboidrati (77,3 g) e pochissime proteine (11 g), fibre (2,2 g) e sali minerali (0,5%). In cucina è l’ideale per dolci, creme, salse e pasta fresca all’uovo.

FARINA 0

La farina 0 è simile alla 00 ma contiene un po’ di crusca, pur restando molto fine e bianca. La 0 è il tipo di farina più raffinata che si possa ottenere con una macinazione a pietra, lenta e a bassa temperatura. La legge però consente di produrla anche dalla farina 00 con l’aggiunta di crusca. Si tratta in questo caso di farina ri-assemblata. Rispetto alla 00, la 0 ha una percentuale leggermente maggiore di proteine (11,5 g su 100 g), fibre (2,9 g su 100 g), sali minerali e leggermente meno amido (67,7 g su 100 g). Gli utilizzi sono praticamente gli stessi della farina 00.

FARINA 1

La 1 è leggermente meno raffinata della 0, rispetto alla quale ha una maggior quantità di crusca (membrana esterna del seme) e cruschello (pellicola intermedia) ed è leggermente più scura. Si ottiene con la molitura a pietra e successivo passaggio in un setaccio (buratto). È l’ideale per la preparazione di pane e pizza, ma per dolci che non devono svilupparsi molto in altezza.

FARINA 2

La 2 è chiamata anche farina semi-integrale, perché non si differenzia molto da quest’ultima. È considerata un buon compromesso tra apporto di sostanze nutritive, gusto e leggerezza dei prodotti. Dà risultati più vicini al gusto moderno rispetto ad un’integrale. Si può usare in cucina più o meno come la farina 1, ma essendo più pesante darà probabilmente prodotti più densi e meno soffici. Rispetto all’integrale, invece, la 2 è più facile da lavorare e far lievitare.

FARINA INTEGRALE

La farina integrale è quella che contiene tutte le parti del chicco – crusca, germe ed endosperma – e si può ottenere solo con la molitura a pietra. Sono però in commercio molte farine dette integrali ma ATTENZIONE….ottenute aggiungendo crusca alla farina 00: le cosiddette farine integrali riassemblate o ricostituite. Ma tornando alla farina integrale vera – o completa: gli apporti di vitamine e altri elementi (come calcio, fosforo e magnesio) sono praticamente intatti e molto più alti rispetto alle altre farine. Il livello di amido risulta il più basso tra le diverse farine (59,7 g su 100 g), così come il livello di carboidrati (67,8 g su 100 g). La quantità di proteine (11,9 g su 100 g), sali minerali (2,2%) e fibre alimentari (8,4 g su 100 g) è invece maggiore che in tutte le altre farine. Setacciando la farina integrale macinata a pietra, si possono ottenere le farine 0, 1, 2.

FARINA MANITOBA

Ecco uno sfarinato di grano tenero il cui nome non dipende dalla lavorazione ma dal contenuto in gliadina e glutenina: la farina Manitoba sviluppa molto glutine e può sostenere lunghe lievitazioni. Una farina di forza, particolarmente utile a chi confeziona lievitati che richiedono un grande sviluppo in altezza, come panettoni e colombe. Questa farina prende il nome dall’omonima regione del Canada in cui è stata coltivata inizialmente, ma oggi la parola Manitoba indica tutte le farine di grano tenero con un’alta percentuale di glutine – il 15% circa, contro un 10% circa di quelle più comuni.

SEMOLA

Con la parola semola ci riferiamo di solito a uno sfarinato di grano duro, un tipo di frumento tipico del Sud Italia. La semola è gialla e profumata e più grossolana rispetto alla farina di grano tenero, con granelli molto spigolosi. Si usa soprattutto per preparare la pasta, ma anche nei pani e nelle pizze rustici, miscelata con altri sfarinati. È più pesante della maggior parte delle farine di grano tenero e difficile da lavorare, per questo si tende a sostituirla o ad usarla in piccole percentuali. Non è un ingrediente della pasticceria italiana, ma compare in alcune ricette dolci regionali, soprattutto nelle frolle, come la pasta violada.

SEMOLA RIMACINATA

Con una seconda macinazione la semola diventa più soffice e leggera: si parla in questo caso di rimacinato di semola o semola rimacinata o più raramente di semolato. In panificazione, il  rimacinato si preferisce alla semola perché è più facile da lavorare e permette una maggiore crescita degli impasti. Semola e semola rimacinata sono oggi prodotte perlopiù con mulini a cilindri, ma è anche possibile trovare in commercio la semola macinata a pietra: quella ‘normale’, privata della maggior parte della crusca, e quella integrale.

FARINA DI GRANO DURO

La farina di grano duro o fiore è la parte più sottile della semola, che si ottiene dopo vari passaggi in setacci dalle maglie sempre più fitte. Oggi è difficile trovarla in commercio, ma una volta era l’ingrediente base dei dolci tradizionali sardi e dei pani più pregiati – chiamata in sardo su scetti.

FARINA DI KAMUT

La farina di Kamut è uno sfarinato ottenuto da un grano molto proteico appartenente alla varietà Khorasan, da sempre coltivata in Medioriente. Kamut infatti non è il nome del cereale ma un marchio registrato da un’azienda americana. La farina di Kamut è abbastanza costosa, ma esistono farine simili: quelle di grano Khorasan, coltivato anche in Italia col nome di Saragolla.

FARINA DI FARRO

Il farro è un antenato del grano tenero, rispetto al quale contiene più proteine. Per questo la farina di farro è simile alla farina più convenzionale, ma più scura e saporita, e può sostituire la farina di frumento tenero ovunque, per un risultato più rustico. Per sfruttare al meglio le proprietà del cereale, meglio usare una farina di farro integrale.

FARINA D’ORZO

La farina d’orzo ha un profilo nutrizionale simile a quella di grano tenero, ma molto meno glutine. Usarla in purezza nella preparazione del pane non è una buona idea se volete un prodotto leggero ed alveolato. Si può comunque miscelare a farine più forti per aggiungere sapore e rusticità. Stesso discorso per i dolci: meglio usarla per quelli che non richiedono troppa leggerezza e sofficità, come biscotti o ciambelloni.

FARINA DI SEGALE

La farina di segale è scura e pesante e contiene poco glutine. Ci si preparano quei saporitissimi pani tedeschi compatti e umidi, pieni di semini. Ma usarne un pochino in aggiunta alle farine a cui siamo più abituati può dare al pane un sapore davvero interessante senza comprometterne la lievitazione.

FARINA DI RISO

La farina di riso è bianchissima, impalpabile e dolce, e non contiene glutine. Può sostituire la farina di grano tenero nei dolci che non devono svilupparsi molto in altezza, anche se il sapore e la consistenza sono chiaramente riconoscibili. Ad esempio: frolle, biscotti e torte dense e basse tipo tarte tatin. È ottima anche per impanature e fritture croccantissime e leggere, come la famosa tempura. In tutti i casi è meglio usare la farina di riso integrale, che contiene più fibre e ha un indice glicemico leggermente più basso.

FARINA DI MAIS

La farina di mais è gialla, granulosa e saporita e non contiene glutine. Esiste in tre varianti:

  • bramata, la più grossa
  • fioretto, di media granulometria
  • fumetto, la più sottile

La farina bramata dà croccantezza e si presta molto alle impanature e all’insemolatura del pane. La farina fioretto è quella più usata per la polenta, anche se è preferibile miscelata con quella bramata. La farina fumetto è la più adatta alla pasticceria secca, a biscotti e frolle. Come non amare le paste di meliga piemontesi? Il mais può essere anche bianco, ma la farina di questo cereale è molto più rara.

FARINA DI MIGLIO

La farina di miglio è scura, pesante e leggermente amarognola. Il miglio è un cereale senza glutine molto digeribile ma con un sapore particolare, per questo è meglio usare lo sfarinato in combinazione con altre farine. Si presta alla preparazione di polente e crepes, dolci o salate e può essere aggiunto ai biscotti e in piccole dosi anche al pane.

FARINA D’AVENA

La farina d’avena è abbastanza leggera e dolce. Non dovrebbe contenere glutine, ma ai celiaci si consiglia di consumare solo quella certificata, che garantisce l’assenza di possibili contaminazioni. Come quella di riso, può sostituire facilmente la farina di grano nei dolci bassi e densi: biscotti, crepes, pancake, budini, creme. Ma si può anche aggiungere in piccole dosi agli impasti di pane e torte per dare morbidezza e sapore.

FARINA DI GRANO SARACENO

Il grano saraceno è uno pseudo cereale da cui si ottiene una farina senza glutine, usata per la polenta taragna della Valtellina: quella gialla e nera, che sa più di integrale. Nella Val di Non invece si prepara con la farina di grano saraceno una particolarissima torta arricchita da nocciole e marmellata di mirtilli.

Come altre farine senza glutine, può sostituire il grano nelle preparazioni che non richiedono lievitazione, ma bisogna essere preparati ad un sapore molto deciso. I bretoni la usano nelle loro crepes salate nere: le galettes.

FARINA DI CECI

La farina di ceci è l’unica farina di legumi abitualmente usata in Italia ed è ovviamente senza glutine. È l’ingrediente fondamentale della cecina toscana e della farinata ligure, schiacciate di farina e acqua, cotte al forno con tanto olio d’oliva. Ma la si può mangiare anche sotto forma di polenta, per cambiare un po’.

FARINA DI CASTAGNE

Questa farina si ottiene dalle castagne disidratate naturalmente, cioè semplicemente lasciate seccare. È un prodotto molto particolare, ma comune nelle zone di montagna. Sugli Appennini e sulle Alpi è tradizione cucinare il castagnaccio: una schiacciata semidolce – o semisalata? – con pinoli, uvetta e rosmarino.

Inutile dire che potete usare la farina di castagne anche per preparare crepes e pancakes senza glutine e naturalmente dolci.

FARINA DI MANDORLE

La farina di mandorle è una delle poche in Italia ad essere ricavata da un frutto secco oleoso. Tradizionalmente è molto usata in Sardegna e Sicilia, dove i dolci di pasta di mandorle sono all’ordine del giorno. Non dimentichiamoci però della Campania con la sua meravigliosa torta caprese! Oggi la farina di mandorle vive un vero boom mondiale come ingrediente fondamentale dei dolci gluten free e paleo, nei quali sostituisce completamente le farine di cereali.

FARINA DI NOCCIOLE

La farina di nocciole non è popolare come quella di mandorle, ma è un prodotto tipico del Piemonte e della Lombardia e l’ingrediente base dei buonissimi baci di dama. Oggi sta trovando sempre più spazio anche nella pasticceria senza glutine e paleo e può essere miscelata alle farine di cereali per ottenere fantastici biscotti, e torte.

FARINA DI COCCO

La farina di cocco seppur non tradizionale, è abbastanza diffusa e da decenni si usa soprattutto nei dolci al cioccolato. È un vero e proprio sfarinato, da non confondere col cocco rapé. Si può usare in modo del tutto simile alla farina di mandorle e cocco, tenendo presente il suo sapore inconfondibile che emerge sopra qualsiasi altro ingrediente.

ALTRE FARINE

Oggi nei negozi specializzati possiamo trovare farine di tutti i tipi, anche di legumi, come quelle di lenticchie o piselli, o di cereali rarissimi come il teff. Se hai voglia di sperimentare, puoi prepararci della pasta fresca colorata e gustosa. Non avrà la stessa consistenza di quella di grano duro, ma potrebbe stupirti piacevolmente.

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18 Marzo 2023 – Redazione – Fonte: botteega.it

 

In passato in Sardegna si produceva un particolare olio da una pianta della macchia mediterranea, il lentisco (o lentischio). L’olio di lentisco si usava come sostituto di quello d’oliva, ma anche come unguento dalle proprietà medicamentose.

Una tradizione che si è persa nel corso del ventesimo secolo, con l’aumento della disponibilità economica e la possibilità di acquistare l’olio d’oliva, e quindi di averlo anche se non lo si produce.

Come è facile immaginare, un tempo questo prodotto abbondava solo sulle tavole dei ricchi, anche perché non erano rare le annate cattive, con raccolti scarsi. I poveri spesso si arrangiavano con strutto e olio di olivastro.

Il nome sardo oll’e stincu sembrerebbe essere nato da un errore. Ollestincu (con le sue varianti ollistincu, stincu,  listincu) sarebbe il nome della bacca e non dell’olio o della pianta, che viene invece chiamata, a seconda della zona, chessa, modditzi o modditha.

Caratteristiche del lentisco

È una pianta tipica della macchia mediterranea, molto simile al mirto. È un arbusto sempreverde con una chioma molto fitta, che può arrivare fino a 3-4 metri d’altezza. In Sardegna, sotto i 400 metri s.l.m., lo si trova quasi in qualunque terreno non coltivato e lo si riconosce facilmente dalle bacche, rosse e tonde, che maturano d’inverno ma son ben visibili anche in estate e autunno.

In primavera, invece, lo troverete coperto di fiori.

Proprietà e usi

L’olio di lentisco ha interessanti proprietà nutrizionali e curative. Ha una resa piuttosto bassa (8-13%), ma la distribuzione di acidi grassi (acido oleico 50-60%, acido palmitico 20-30%, acido linoleico 10-25%) è simile a quella di piante oleaginose con resa molto più alta. In passato si usava per cucinare e alimentare le lanterne, ma anche per le sue proprietà medicinali. Era un unguento per lenire i dolori reumatici e per velocizzare la guarigione delle ferite.

Oggi quest’olio non viene quasi più consumato come alimento, ma ha trovato altre applicazioni, in particolare in campo dermatologico. Ha ottime proprietà lenitive, efficaci nella cura di irritazioni, bruciature, dermatiti e anche psoriasi. In generale ha un effetto benefico sulla pelle: combatte l’invecchiamento e stimola la rigenerazione cellulare, tonifica e idrata.

Grazie alla presenza di diverse sostanze benefiche, tra cui acidi grassi monoinsaturi, steroli e tocoferoli, aiuta a guarire da problemi respiratori come bronchiti e tracheiti.

Gli sono state inoltre riconosciute importanti proprietà antitumorali, essendo un valido aiuto nella regolarizzazione del colesterolo e dei trigliceridi nel sangue.

All’olio di lentisco vengono attribuite tante proprietà per la nostra salute. Vediamo quali sono i suoi benefici:

  • favorisce la regolarità intestinale
  • cura alcune patologie gastriche
  • aiuta a curare la gastrite perchè depotenzia il battere l’Helicobacter pylori, batterio che ne è la causa, grazie alle sue qualità antisettiche e antibatteriche
  • regolarizza il colesterolo e agisce positivamente sui trigliceridi
  • allevia i disturbi da reflusso gastrico e da ernia iatale
  • aiuta a sedare le infiammazioni delle vie aeree, sedare la tosse
  • previene la formazione di placca in caso di gengiviti e afte, e combatte l’alitosi. Si usa facendo risciacqui e gargarismi
  • ha un’azione antitumorale: sembra che l’olio di lentisco abbia una efficacia antitumorale nel combattere le cellule di alcuni tumori
  • è indicato nel trattamento di affezioni a livello uro-genitale quali cistiti, uretriti, ureteriti, leucorrea e prostatiti: si usa per lavaggi.

Tradizionalmente l’olio accompagna i rituali delle berbadoras, ovvero quelle figure femminili che, ancora oggi, curano certi malanni con riti di magia bianca, figli di un paganesimo ancestrale mischiato a cattolicesimo (is berbos/brebus).

Anticamente anche il resto della pianta di lentischio si usava in vari modi. Con le frasche si costruivano le scovittas (scopette) per pulire il forno a legna. Il mastice (resina) e le foglie servivano anche da dentifricio: spesso i pastori e i contadini le masticavano per gli effetti positivi su denti e gengive.

Dal tronco si ricava una resina usata sia per il trattamento delle gengiviti e infezioni del cavo orale, che per combattere i sintomi del reflusso gastroesofageo, grazie alle proprietà lenitive dell’olio essenziale che contiene. Viene chiamata Mastice di Chios, dal nome dell’isola greca dove è principalmente prodotta.

Come si fa l’olio di lentisco?

Per ottenere l’olio di lentisco vengono utilizzati 2 diversi metodi: spremitura a caldo e spremitura a freddo. Entrambi i metodi sono piuttosto lunghi e laboriosi, bisogna armarsi di tempo e pazienza.

Spremitura a caldo

In passato l’olio si ricavava dalla spremitura a caldo delle bacche. Il risultato era un prodotto dal sapore forte e acre, che doveva essere trattato prima dell’uso. Per addolcirlo, lo si scaldava in una padella con del pane, oppure ci si mettevano dei fichi a macerare. La lavorazione avveniva all’interno di contenitori di rame, chiamati caddargios. Oggi vengono utilizzati contenitori in acciaio inox. Inizialmente si faceva bollire l’acqua e venivano immerse le bacche per circa 15-20 minuti. In seguito veniva travasato il tutto in una sacca. A questo punto si eseguiva la spremitura (carcadura), aggiungendo ogni tanto dell’acqua.

In passato per questa operazione venivano utilizzati i piedi o una macina. Per eliminare le impurità e per facilitare la separazione, l’estratto ottenuto dalla spremitura veniva bollito un’altra volta. Tramite un colino veniva levata la parte più densa. Dopo un po’ di attesa, l’olio sale in superficie: a questo punto viene estratto con cucchiai e mestoli e filtrato nuovamente con panni di lino.

Spremitura a freddo

Questo metodo è il più consigliato in quanto preserva le qualità nutrizionali e medicinali e ritarda l’irrancidimento, allungando la conservazione. La resa è minore, ma si ottiene un prodotto di maggior qualità. Le bacche, una volta raccolte, subiscono una prima pressatura, tramite un pestello. Vengono pestate e mescolate fino ad ottenere una sorta di pasta. A questo punto, tramite un torchio, viene effettuata una seconda pressatura. Inizialmente si ricava del succo accompagnato da un po’ d’olio. Questo dovrà essere messo da una parte. In seguito, uscirà soprattutto olio.

Ora avviene la fase della filtrazione, per eliminare la parte più densa. A questo punto avviene la separazione dell’olio dal liquido: basterà attendere e l’olio salirà in superficie. Ora, armati di pazienza, bisognerà raccogliere l’olio con un cucchiaino o un oggetto simile. Questa operazione bisognerà ripeterla più volte, per riuscire a ottenere un olio più puro possibile.

 

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